Per la prima volta dal 2008, non sono sul campo per coprire le elezioni presidenziali americane. Ricordo con entusiasmo e un pizzico di malinconia quei momenti. Ci sono eventi nella vita di un cronista che diventano parte della propria identità. E se è vero che non bisogna lasciarsi sedurre dalle sirene dell’eccezionalismo (perché alla fine ogni cronista pensa di essere testimone di un momento eccezionale), la corsa che portò alla prima vittoria di Barack Obama per me resta memorabile.
Ero appena arrivata negli Stati Uniti, non avevo idea di come sarebbe andata a finire, chi avrebbe catturato l’immaginario degli elettori, era emozionante, una sorta di teatro politico senza copione che mi ha portata a seguire i candidati americani da un capo all’altro del Paese, il suono degli elicotteri, il Secret Service, le urla della folla, il silenzio delle sale stampa, quante notti insonni, i colpi di scena, la regia spettacolare dei comizi, un’energia che non avevo mai visto prima. Poi il gran finale, l’elezione del primo presidente afro-americano, la quintessenza della speranza, un’America che guardava avanti, come lo stesso rivale sconfitto, l’eroe americano John McCain, ebbe a dire nella notte del 4 novembre del 2008, in uno dei discorsi “della sconfitta” più belli e ispirati.
"In una competizione così lunga e così difficile come è stata questa campagna, il successo di Barack Obama – da solo – esige il mio rispetto per la sua abilità e perseveranza. Ma il fatto che ci sia riuscito dando ispirazione alla speranza di così tanti milioni di americani, che credevano erroneamente di essere così poco in gioco o di avere una influenza minima sull’elezione di un presidente americano, è qualcosa che io ammiro profondamente e la cui riuscita merita il mio encomio… auguro il meglio all’uomo che era il mio avversario e che sarà il mio presidente".
Sedici anni dopo, il panorama elettorale è quasi irriconoscibile. Dopo due mandati di Barack Obama, è arrivata la vittoria e la presidenza di Donald Trump, la pandemia di COVID-19, i lockdown in un Paese che non si può chiudere perché la sua natura è aperta, le proteste del movimento di Black Lives Matter, l’ascesa della tossica Cancel culture, le città blindate, gli scontri e le violenze, due Americhe che si fronteggiano, l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021 e, in questa campagna ad altissima tensione, due tentativi di assassinare il candidato repubblicano, Donald Trump, e il cambio in corsa del presidente uscente, Joe Biden, con Kamala Harris.
America 2024 è una corsa incredibile. Resta scolpita nella mia mente (così come una pazzesca visita a Mar-a-Lago) la sera in cui sono arrivata a Washington per seguire l’inaugurazione di Joe Biden, era il 18 gennaio del 2021, un giorno di festa per il Martin Luther King Day. Atterrata all’aeroporto Reagan faccio rotta verso un albergo vicino a Capitol Hill. Come sempre, l’auto arriva in centro in un quarto d’ora. Ma poi inizia una storia infinita di check point, varchi d’accesso chiusi, è buio, cammino a piedi con la valigia, mi fermano i soldati (erano 26 mila quelli schierati nella capitale dopo l’assalto al Campidoglio), i servizi segreti, passano le ore, sono esausta. Alla fine mi “salva” un poliziotto italo-americano, Pietro, suo padre è partenopeo, ma lui è nato e cresciuto negli States. Mi parla in italiano e mi porta a destinazione, in un albergo quasi tutto prenotato dall’esercito.
Pietro l’ho inserito nella mia classifica degli “eroi dei due mondi”, con Sophia Loren, Mauro Ferrari, Amadeo Giannini, Amerigo Vespucci, Enrico Fermi, John Fante. America, Italia. Giuseppe Prezzolini, nel “Codice della vita italiana”, osservava come gli italiani abbiano una naturale capacità di adattamento, che gli permette di prosperare in terre lontane, pur mantenendo le proprie radici. Per me la cittadinanza americana è stata un viaggio iniziato con la realizzazione di un sogno: raccontare l’America al voto. Non finisce mai.