In una freddissima serata di inizio dicembre del 2009, un uomo appena arrivato con un volo da Los Angeles a Londra incontrò il contatto che lo aspettava a poca distanza da un cinema davanti al quale si era formata una fila così lunga da girare intorno all’isolato e tirò un sospiro di sollievo. Da lì a una settimana si sarebbe scatenata sull’Inghilterra un’ondata di gelo e neve come non se ne vedevano da quasi vent’anni, ma quella sera il contatto si era presentato all’appuntamento in orario e, soprattutto, era riuscito a ottenere quello per cui l’uomo aveva compiuto un viaggio così lungo: un biglietto per il debutto londinese del film ‘Avatar’.
Le persone in fila avevano sborsato cifre inaudite o chiesto favori che avrebbero ripagato a caro prezzo per mettere le mani su un biglietto per la ‘premier’, ma l’uomo venuto da Los Angeles aveva un motivo particolare per essere lì. Conosceva a memoria ogni sequenza del film e avrebbe potuto descrivere nel dettaglio ogni frame, ma quella sera l’unica scena che gli interessava era quella che considerava il culmine della propria carriera.
Entrò in sala, si sedette tra il pubblico in cui si mescolavano scettici, entusiasti, cinici ed esaltati e attese quel particolare minuto della proiezione.
Quando sul grande schermo, un candelotto sparato da uno ‘space marine’ rimbalzò sul pavimento di un’astronave e sembrò piombare dritto in mezzo agli spettatori incantati dietro le loro lenti per la visione 3D, tutti – senza eccezione – fecero uno scarto sulla poltrona, come per scansare quell’oggetto che puntava dritto addosso a loro, ma che nella realtà non aveva mai lasciato lo schermo.
Un candelotto sparato da uno ‘space marine’ rimbalzò sul pavimento di un’astronave e sembrò piombare dritto in mezzo agli spettatori incantati dietro le loro lenti per la visione 3D
L’uomo fu scosso da un brivido e sorrise: aveva ottenuto quello che voleva. Da quando aveva cominciato a lavorare nel cinema aveva un solo obiettivo: far rivivere al pubblico quella incontenibile emozione che più di un secolo prima aveva spinto gli spettatori del cortometraggio ‘L’arrivo del treno alla stazione di La Ciotat’ a fuggire dalla sala per la paura di essere travolti dalla locomotiva.
Quell’uomo era Joe Letteri e se James Cameron era riuscito a compiere quel miracolo di tecnologia cinematografica che era ‘Avatar’ era in gran parte merito suo. Suo e delle 900 persone che avevano lavorato ai suoi ordini nel reparto effetti visivi della produzione.
Ma quell’incontentabile perfezionista che è Cameron non era altrettanto soddisfatto, L’idea di ‘Avatar’ gli frullava in mente dai tempi di ‘Titanic’, ma era consapevole che un film come quello che voleva realizzare non era possibile. Semplicemente perché la tecnologia necessaria per produrlo non esisteva ancora.
L’idea di ‘Avatar’ gli frullava in mente dai tempi di ‘Titanic’, ma la tecnologia necessaria per produrlo non esisteva ancora
Per Avatar Cameron aveva ottenuto risultati che a nessun altro regista sarebbero stati concessi. Innanzitutto la creazione da parte di Microsoft di un cloud per la gestione di ogni passaggio dei processi digitali del film. Una mole mostruosa di dati, se si considera che ogni minuto del film occupava più di 17 giga di memoria e che solo il rendering, ossia la ricostruzione digitale del mondo alieno, di Pandora ne occupava un petabite, o che per mettere in moto la macchina del ‘motion caption’ venivano impiegati due supercomputer tra i più potenti allora esistenti sulla Terra.
Sul set erano state usate tecnologie così innovative che persino padri fondatori del cinema digitale come Steven Spielberg, Peter Jackson e George Lucas avevano chiesto di poter partecipare alle riprese.
Eppure Cameron non era soddisfatto. E si è portato dietro questa insoddisfazione fino a quando non ha potuto sanare quella mancanza che gli faceva percepire ‘Avatar’ come un film perfettibile. Già non gli era andato giù che la Fox lo avesse costretto a utilizzare una tecnologia 24 frame al secondo per la versione 3D (avrebbe voluto avere una frequenza più alta per eliminare ogni possibile ‘sfarfallio’ durante la visione), ma con la diffusione della tecnologia 4K la voglia di rendere ‘Avatar’ un film ancora più straordinario non gli faceva chiudere occhio.
Per questo due mesi prima del ritorno di Cameron nelle sale con il sequel ‘Avatar – The way of water’, il regista collezionista di premi Oscar ha ottenuto di riportare il primo episodio della saga nei cinema in una versione ‘restaurata’: più nitida, con colori più vivi e di grande impatto (anche se quelli della vegetazione di Pandora nella versione originale erano già strepitosi), stampa digitale avanzata per le immagini rielaborate ed effetti speciali rivisti.
Certo, parlare di restauro per un film che ha appena 13 anni è un po’ surreale, ma la tecnologia cinematografica si è evoluta a una velocità tale nell’ultimo decennio che migliorare alcune pellicole seppure recenti è quasi d’obbligo. Basti pensare alla sensazione di ridicolo che fa rivedere alcuni grossolani effetti speciali del primo ‘Spiderman’.
I progressi in settori come il chroma key, l’animazione e la stabilizzazione della cinepresa hanno permesso ai registi di dare vita alle loro creazioni in modi che i loro predecessori potevano solo sognare. Ora la tecnica è in gran parte orientata a semplificare il processo di montaggio e migliorare la disponibilità della tecnologia di produzione, tanto che gli aspiranti registi non hanno più bisogno di accedere a uno studio e ad attrezzature costosissime per ottenere un prodotto finito raffinato.
Gli effetti digitali sono progrediti al punto che è possibile creare un facsimile incredibilmente realistico di chiunque
L'editing creativo e la tecnologia sono stati usati molte volte per le esibizioni postume (basti guardare l'apparizione di Tupac Shakur al Coachella nel 2012, o Oliver Reed in Il Gladiatore). Gli effetti digitali sono progrediti al punto che è possibile creare un facsimile incredibilmente realistico di chiunque. Sebbene questa capacità rappresenti un enorme progresso tecnologico, solleva diverse questioni morali ed etiche. Non tutti gli artisti si sentono a proprio agio nel continuare a fare apparizioni postume e le comparse temono che la capacità di creare persone digitalmente farà perdere loro il lavoro a causa di ‘pupazzi’ digitali più economiche.
Cameron con la sua ossessione è in buona compagnia. A mezzo secolo dal debutto de ‘Il Padrino’ nelle sale, Francis Ford Coppola non considera ancora chiusa quell’esperienza. Già 15 anni fa il regista italoamericano aveva lavorato a un restauro del film e nel marzo del 2022 è tornato nelle sale con una versione ulteriormente restaurata. Quando il film debuttò, nel marzo del 1972, fu un successo così rapido che per stampare le copie che servivano venne usato il ‘master’ e non una copia di servizio. Con il risultato che l’originale venne rovinato e il ‘Padrino’ che vediamo oggi, sia in tv che nelle sale, non è assolutamente quello del debutto.
A mano sono state tolte tutte le imperfezioni fisiche che il tempo aveva aggiunto – macchie, sbavature, graffi – ma il digitale ha messo Coppola di fronte a un dilemma: ‘Il Padrino’ doveva essere migliorato per andare incontro ai gusti del nuovo pubblico o doveva mantenere il fascino originale? A turbarlo, in particolare, erano sequenze come quella che apre il film: il contrasto tra la luce e la vividezza del matrimonio all’aperto e l’atmosfera cupa dello studio di Don Vito Corleone. Il gusto contemporaneo, seppure esaltando le atmosfere dark (basti pensare alle varie saghe di Batman o a colossal fantasy come ‘Il signore degli Anelli’) indugia sui dettagli. Per dirla semplice: se ‘Il Padrino’ fosse stato girato oggi, lo studio del boss sarebbe stato ancora immerso nella stessa atmosfera crepuscolare, ma sarebbe possibile vedere ogni dettaglio della boiserie. Un effetto che con le tecnologie del 1972 era impossibile.
Martin Scorsese, cultore dei film del passato oltre che regista di talento (non sempre le due cose vanno insieme) ha inaugurato a marzo una sala di proiezione virtuale gratuita per i film restaurati tramite la sua organizzazione no profit, la Film Foundation. L'iniziativa ha preso il via il 9 maggio con la commedia romantica del 1945 ‘I Know Where I'm Going!’ con Wendy Hiller e Roger Livesey.
Le proiezioni dei film restaurati sono accompagnati dai commenti dei registi che li hanno scelti: si tratta di pellicole che vengono mostrate al pubblico o trasmesse molto di rado e che magari hanno influenzato il loro stile e la loro narrativa molto più di quanto abbiano avuto successo.
La Film Foundation collabora con Oracle per creare e potenziare la nuova piattaforma, che presenta film il secondo lunedì di ogni mese e per 24 ore. Gli spettatori hanno accesso a conversazioni con registi e archivisti sul processo di restauro. Finora, i titoli trasmessi in streaming sono stati ‘La Strada’, ‘Kummatty’ , ‘Detour’, ‘The Chase’, ‘Sambizanga’, ‘One-Eyed Jacks’ e sono in previsione Moulin Rouge (la versione del 1952) e ‘Lost Lost Lost’. Nessun genere, epoca o nazionalità è escluso: l’unico requisito è che si tratti di pellicole restaurate. Un luogo in cui rifugiarsi per sfuggire all’imperversare dei supereroi Marvel 99% digitali che imperversano sui grandi schermi.