Altro che mercati esteri da esplorare e bagarre con i Paesi d’oltralpe. Il vino italiano e anche le barbatelle, le prime radici che sbocciano da un piccolo tralcio di vite, attraversano la frontiera dell’atmosfera e sbarcano sulla Stazione spaziale internazionale. Un’impresa targata Campania, Irpinia, Avellino, Sorbo Serpico: la terra dei Feudi di San Gregorio che arriva sulle stelle. Il progetto dell’Agenzia spaziale italiana, che coinvolge anche le cantine Gaja e Biondi-Santi, mira a valutare il potere di invecchiamento dei vini.
Una nuova sfida per il presidente di Feudi Antonio Capaldo che nel 2009, dopo aver passato dieci anni nell’alta finanza, si è reso conto che l’affare più importante della sua carriera era proprio a casa sua. Ha mollato tutto e si è dedicato all’azienda di famiglia: quella delle bottiglie con il fondo stretto e con le etichette firmate da Massimo Vignelli, il designer che ha messo su carta le mappe della metropolitana di New York e che di frontiere se intendeva davvero, visto che ha superato quella del Moma della Grande Mela. Astemio - pentito – fino all’età di 25 anni, Capaldo ammette di aver recuperato il gap “alla grande, ma “con moderazione” ed è oggi convinto che il vino sia “una bevanda che dà calore e gioia”, certo, ma che sia anche una “sfida culturale”. Le etichette di Vignelli, confida, sono “una delle intuizioni che ci hanno portato al successo: pensare che la bellezza del contenitore fosse importante quanto il contenuto”. All’estero si chiama ‘brand identity’, il tratto distintivo che trasforma un’azienda in una marca. “Non sono tantissime le case vinicole che hanno puntato sulla riconoscibilità dell’etichetta, cosa che oggi è molto più in voga”, sottolinea ‘mister Feudi’, a capo di una cantina visitata ogni anno da oltre 25.000 persone.
Con la sua guida, Feudi è una delle venti aziende del nostro agroalimentare entrate nell’elenco delle B Corp per performance, trasparenza e responsabilità. “Il grande valore non è la certificazione di per sé, ma il processo che ci ha permesso di coinvolgere tutti: non c’è stato elemento più federante del tema della sostenibilità. E’ un modo di chiedere a tutti non solo di essere più produttivi, ma di ridurre l’impatto. Siamo diventati sostenibili non per i consumatori ma per noi stessi: se non lo sei, sarai punito nei fatti e non sei credibile come produttore di vino”, spiega. Sette bottiglie su dieci restano in Italia, il resto parte per gli Stati Uniti, la Germania, i Paesi Scandinavi, il Canada, il Giappone e la Corea: “Da qualche anno abbiamo cominciato a lavorare in Cina, ma è un Paese molto difficile”, ammette. “Dopo l’uscita di mio zio – racconta – dal 2006 al 2009 in azienda non c’è stata la presenza di alcun componente della famiglia”: una situazione inimmaginabile per un’impresa come questa. E così Capaldo non si è lasciato sfuggire l’occasione: l’opportunità “era lì”.
L’incoraggiamento del padre non fu tra i più esaltanti: “Mi disse che i genitori devono lasciare una dote per permettere ai figli di sbagliare, e che, malgrado avessi un buon curriculum, avrei commesso degli errori”. Previsioni che si sono puntualmente realizzate. “E’ stato un insegnamento - continua il manager - Quando sono arrivato avevo il pensiero non dico di non sbagliare, ma di saper fare molto di più di quello che era la realtà. Ma la strada dell’imprenditore non si impara da nessuna parte e quindi bisogna sbagliare”.
"Il vino non è solo una bevanda che dà gioia ma soprattutto una sfida culturale"
Presente e passato, tradizione e modernità si fondono in questa azienda ’millennial’, nata nel 1986 che non ha ancora passato la frontiera degli ‘anta’. “Nel mondo del vino italiano siamo ancora tra i giovani. Non vogliamo solo realizzare un buon prodotto, guardiamo anche al consumatore presente, a chi deve bere il nostro vino nel ‘qui e ora’ e a chi vuole vini di affinamento tra quattro o cinque anni. Questo ci obbliga a pensare avanti”, afferma ancora.
"La sostenibilità è un elemento straordinario per creare un empowerment”
La sostenibilità e il territorio, un’altra ‘fissa’ di Capaldo, appassionato anche dei rossi piemontesi e dei bianchi alsaziani. “Il racconto che una bottiglia di vino esprime più delle mani che lo hanno realizzato, mi affascina moltissimo”, racconta. Un concetto che si è concretizzato nel progetto ‘Feudistudi’, pensato per traghettare l’Irpinia fuori dai suoi confini. “Siamo in un territorio non conosciutissimo ma dalla grande storia. Nel 1800 la prima scuola di viticoltura ed enologia di Italia è nata qui, dove c’era il terzo polo produttivo italiano. Le nostre varietà arrivano dai greci e dai romani. Plinio il Vecchio ne scrive. Feudistudi vuole essere un modo per raccontare la complessità e la ricchezza di queste zone anche attraverso piccole produzioni di alcuni vini, che usiamo principalmente per le degustazioni. Pensiamo che l’Irpinia meriti di essere conosciuta in modo dettagliato”, insiste annunciando la prossima pubblicazione di un’enciclopedia.
Un suo timore? La paura che ‘il saper fare’ presto scompaia, non solo nella sua zona ma anche in Toscana e in Friuli, dove l’azienda si è estesa. “Il problema esiste, i ragazzi vogliono fare tutti gli enologi, nessuno vuole lavorare la terra”, dice, sperando in “investimenti per insegnare il lavoro alle persone che arrivano da zone senza la cultura della vite”. Bisogna fare in fretta, avvisa perché “mancano anche gli insegnanti. Si sta perdendo davvero qualcosa”. Nel frattempo, si guarda alle stelle immaginando un brindisi nello spazio: “Pensavamo di portare le nostre varietà in giro per il mondo, l’idea di superare l’atmosfera non ce l’aspettavamo. E’ un bell’orgoglio ed una bellissima intuizione della Fondazione italiana sommelier".