Dormono le rose nei rami nodosi,
ma appena il sole le bacia audace inturgidiscono le prime gemme.
Si mostrano vanitosi, bruciando già a metà marzo il traguardo della primavera, i giacinti, le camelie, le primule.
I giardini d’Italia, a centinaia dalle Alpi (sul Monte Bianco il ”Saussurrea” sfodera le intoccabili stelle alpine) alla Sicilia (con il lussureggiante Orto Botanico,
con Villa Malfitano). Pronti a riaprire
i battenti appena vola la rondine
di San Benedetto. Li censisce l’Apgi, Associazione Parchi e Giardini d’Italia,
e il suo presidente onorario, Paolo Pejrone, ha un anelito: “Magari
gli italiani diventassero tutti giardinieri. Un’arte nella quale eravamo i migliori del mondo. E che
cioè ad avere pazienza, a sognare,
a sporcarsi le mani di terra e ad avere così la realtà tra le mani”.
Ma intanto siamo grati a Fondazioni, Comuni virtuosi, nobili nelle loro residenze, consapevoli che i giardini sono capisaldi della storia italiana. E a quanti si sono prestati al culto del Bello in natura, reinventando il proprio tempo. Questo personalissimo baedeker vuole tenere conto di quelli e di questi.
I disegni di fiori,
di ambito piemontese
e risalenti alla fine
del XVI-inizio del XVII secolo, sono conservati
nella biblioteca reale
nei musei reali a Torino.
Allora si comincia col Giardino di Ninfa, a Cisterna di Latina, sotto ai Monti Lepini, dove si arroccano Norma e Sermoneta. Attraversa secoli e secoli, fin dal nome – che evoca il tempio dedicato in età classica alle Ninfe. E mostra rovine di ponti antico-romani e, dal Medioevo, di torri, chiese, case, monasteri: perché la strada pedemontana attorno a Ninfa – quando l’Appia e la via Severiana furono invase dalle paludi – permetteva il transito delle merci. E dunque il centro agricolo che l’imperatore Costantino V donò a papa Zaccaria per aver contrastato i Longobardi di Liutprando, divenne fiorente città. In realtà a Ninfa dominarono nei secoli famiglie blasonate: i Tuscolo, i Frangipane, gli Annibaldi, i Colonna, i Caetani, con tanti e tali rovesci, compresa la devastazione ordita da Federico Barbarossa, da riempire gli Annali. Ninfa decadde, si spopolò. Per risvegliarsi soltanto negli anni Venti del Novecento. Il conte Gelasio Caetani avvia il restauro dei ruderi e pianta specie botaniche scovate all’estero.
Che trovarono un territorio ideale, umido per il corso d’acqua che lo attraversa, protetto dalla montagna alle spalle, refrigerato dal mare non distante. I discendenti, fino a Lelia Caetani, impiantarono un giardino all’inglese, ma quei ruderi che transitano Medioevo, Rinascimento, Sei e Settecento danno all’Oasi di Ninfa un sigillo unico. Che incantò D’Annunzio e Pasternak. Ora il cedro che ospita la pianta senza radici chiamata tillandsia, i fiori scarlatti come uccelli tropicali, i papiri, la magnolia stellata, il viale dei cipressi, l’acero giapponese incantano noi, digitali viaggiatori.
Una moglie innamorata e un musicista hanno creato “La Mortella”, il giardino che domina la baia di Forio d’Ischia dal promontorio di Zaro. È nato nel 1958, quando il compositore inglese William Walton e la sposa argentina Susana acquistarono il terreno brullo sullo sperone di roccia. La lady sudamericana dagli occhi verdi chiamò il paesaggista Russell Page a disegnare il giardino. Ma poi fu il suo lavoro a inverare il progetto, a interpretarlo. L’ultima creazione, prima della scomparsa, nel 2010, un teatro con cavea aperta sul mare e circondato da timi striscianti e rose che può accogliere un’orchestra sinfonica. E infatti la Mortella in primavera ed estate ospita concerti e spettacoli (quest’anno si comincia l’1 e il 2 aprile), in memoria di sir Walton, cui si deve tra l’altro la colonna sonora dei tre film shakespeariani interpretati da Lawrence Olivier.
Dunque, storie di musicisti, di artisti e di vegetali, a La Mortella. Ci sono il teatrino delle marionette realizzato da Lele Luzzati, la raccolta dei manoscritti di Walton, piante esotiche e rare mischiate alla macchia mediterranea. L’ascesa al giardino superiore permette di scoprire panorami spettacolari sul mare e su Forio ed è accompagnata dai fiori blu dei rosmarini che sottolineano, con i rami profumati, scalette e muri a secco. Culminerà con le fioriture della collezione di aloe, accanto alle bacche di corbezzolo e di mirto. Ma ecco stravaganti corolle di piante australiane – mimose, grevillee, banksie. Ecco il giardino orientale che circonda la casa Tai, in primavera arricchito dalle sagome dei bambù.
Il giardino è aperto al pubblico dal 1991. Così volle lady Walton, che intitolò al marito e alla Mortella la Fondazione contestualmente nata. Un modo in fondo per eternare la loro storia d’amore. Mentre William lavorava agli spartiti, Susana creava il suo capolavoro fatto di corolle e di arbusti e modellando un terreno di pietre vulcaniche in un paradiso floreale a più livelli.
E ora le rose. Sono il leit motiv di un altro giardino creato da un personaggio diversamente affaccendato. Giorgio Mece si occupa di fiscalità internazionale. Ma è anche proprietario, in Sabina, di “Vacunae Rosae” il roseto concettuale primo al mondo, e secondo per numero di specie. Il giardino è parte di una vasta, boscosa proprietà, La Tacita, che digrada all’ombra del monte Fiolo, nell’antichità caro alla dea Vacuna, nel comune di Roccantica. È sorto nell’anno 2000, disegnato dal visionario Paolo Bonani, che lo ha cosparso di simboli, a cominciare dalla forma, ad ala d’angelo, e proseguendo con il giardino secco zen fino a sette colorate fontane dai nomi mitologici, come Psiche. “Possedete davvero diciottomila rose?”, ha esclamato stupito re Carlo III quando nel 2015, ancora “principe botanico”, ha ricevuto a Clarence House Mece e la moglie Anna Chiara. Le visite al Roseto – entrato nel circuito dei Grandi Giardini Italiani – si possono prenotare presso il sito de La Tacita. E si compirà un mistico viaggio tra piante di 5.500 varietà, contemporanee e antiche, inglesi, francesi, orientali, come la bianca bracteata, rosa cinese di fine Settecento. Arrampicate su tralicci e cancellate, capaci di sbocciare fino a dicembre, o distese sui declivi, come le resistentissime “knock out”.
Rose “rustiche” popolano invece il Giardino di Pianamola, a Bassano Romano, nel Viterbese, con vista sul lago di Bracciano e sul mare. Qui la proprietaria Elisa Resegotti, produttrice cinematografica e paesaggista, ha raccordato il suo amore per il bello a una missione: salvare i cisti, le piccole “rose di mare”, tipiche della macchia mediterranea. Accanita come una suffragetta le preleva da terreni del litorale laziale in procinto di essere dissodati e le trapianta sulla sua collina di Pianamola. Resegotti ha creato questo Eden (che apre ai visitatori su prenotazione al numero 3388479108) privilegiando un’idea di paesaggio naturale. Di qui il recupero della flora spontanea e l’attenzione al profilo delle alture, che era stato deturpato dall’espianto di ogni specie. A giugno i papaveri rosseggiano tra i cespugli di ginestra e di lavanda, mentre emozionano le poderose querce ed evocano le vibrazioni di colore impressionista le distese di cisti che modulano il bianco, il giallo, il lilla. L’anfiteatro in tufo, omaggio agli Etruschi, ospita performance e raduni di artisti. Perché Pianamola è anche un atelier en plein air. L’ultima mostra a fine 2022, dove il giardino stesso si è mostrato come opera di Resilienza dopo la pandemia e ha esposto tra gli altri, “Albero bionico” di Paola Babini e “Corkodrillo”, scultura in sughero di Hans-Hermann Koopmann.
Fresca rosa novella,
piacente primavera,
per prata e per rivera
gaiamente cantando,
vostro fin presio mando – a la verdura.
Lo vostro presio fino
in gio’ si rinovelli
da grandi e da zitelli
per ciascuno camino;
e cantin[n]e gli auselli
ciascuno in suo latino
da sera e da matino
su li verdi arbuscelli.
Tutto lo mondo canti,
po’ che lo tempo vène,
sì come si convene,
vostr’altezza presiata:
ché siete angelicata – crïatura.
Angelica sembranza
in voi, donna, riposa:
Dio, quanto aventurosa
fue la mia disïanza!
Vostra cera gioiosa,
poi che passa e avanza
natura e costumanza,
ben è mirabil cosa.
Fra lor le donne dea
vi chiaman, come sète;
tanto adorna parete,
ch’eo non saccio contare;
e chi poria pensare – oltra natura?
Oltra natura umana
vostra fina piasenza
fece Dio, per essenza
che voi foste sovrana:
per che vostra parvenza
ver’ me non sia luntana;
or non mi sia villana
la dolce provedenza!
E se vi pare oltraggio
ch’ ad amarvi sia dato,
non sia da voi blasmato:
ché solo Amor mi sforza,
contra cui non val forza – né misura.
Guido Cavalcanti, [1258-1300].
Giorgio Mece è figlio di un pascià. L’accento è romano, ma la sua famiglia, Meçe Bono di Tepeleny, è tra le cinque nobili più in vista in Albania, per nomina, nel 1271, di Carlo d’Angiò. Deriva da questi avi l’amore per la terra che lo ha condotto all’acquisto della tenuta La Tacita, 130 ettari in Sabina. “Sono un megalomane” dice di sé. “Per questo amo gli alberi. Ne ho piantati 26 mila di alto fusto, tra cui 200 sequoie venute dalla California. Le rose no, sono una predilezione di mia moglie, e l’ho accontentata”. Ma è anche un appassionato di botanica intesa come strumento di elevazione dello spirito. Ha accumulato letture specialistiche, ha studiato Shigo, il biologo che individua le relazioni tra le piante. “È stato lui a spiegarmi perché una delle mie sequoie era diventata bruna: ‘Ha un fico vicino, un albero che odia’”. Tutta la sua vita è un imprevisto. Il padre fatto podestà ma poi mandato in campo di concentramento perché musulmano; la conversione al cristianesimo, la famiglia emigrata in Canada dopo la guerra; gli studi e la carriera professionale prestigiosa. Ma il richiamo della Natura resta il suo faro.