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1 ottobre 2024,
di Lidia Lombardi

A tu per tu con Giotto

A tu per tu con Giotto e con San Francesco. Succede da inizio ottobre a Firenze, nella Cappella Bardi, in Santa Croce. Succede perché si sta restaurando il ciclo di affreschi dedicati al Poverello dal rivoluzionario artista medievale e la Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze  (finanzia l’intervento, che costerà un milione di euro, insieme con l’Opera di Santa Croce, l’Opificio delle Pietre Dure e l’ARPAI) si è impegnata per consentire a chi ne faccia richiesta tra i residenti nel capoluogo toscano - prenotazione obbligatoria con fondazione.crfirenze.it  - di salire sui ponteggi del cantiere, che concluderà i lavori nell’estate prossima.

“La vista ravvicinata delle pitture di Giotto è una irripetibile occasione di conoscenza del maestro fiorentino e del suo quotidiano operare”, sottolinea Cristina Acidini, presidente dell’Opera di Santa Croce, affiancata da Emanuela Daffra, soprintendente dell’Opificio delle Pietre dure, al quale il restauro è affidato. “A tu per tu con Giotto” – così si chiama l’iniziativa – comincia dopo due anni dall’avvio dei lavori. Una fase accurata di studio e documentazione che ha permesso di sapere molto sul ciclo affidato a Giotto dai banchieri Bardi, così come banchieri erano i Peruzzi, committenti dell’altra cappella giottesca in Santa Croce.

 

È venuta alla luce una decorazione precedente, probabilmente geometrica; grazie alla termovisione sono state individuate le buche inserite nei muri per sostenere il ponteggio e precisati andamento e struttura dei palchi del cantiere. Giotto tracciava l’abbozzo di ciascuna scena per pianificare le “giornate” del “tonachino”, l’intonaco sottile su cui i pittori avrebbero steso i colori. Questa modalità permette di ricostruire il succedersi nel tempo del lavoro pittorico. Soprattutto si è avuta la prova che nella Cappella Bardi un Giotto di mezza età porta avanti le sperimentazioni circa l’utilizzo misto di pittura a fresco e a secco. Insomma, la Cappella Bardi è un po’ il testamento artistico del pittore.

 

Ma proprio questo espediente è tra le cause dell’evidente deterioramento dell’opera.  Gli strati successivi di intonaco hanno infatti creato distacchi che restauratori hanno curato con la calce sabbia. Ma molto altro ha rovinato gli affreschi, per i quali non era più rinviabile l’intervento di risanamento, precisa Acidini. Infatti nel Settecento le pitture murali di Giotto erano considerate fuori moda. Ecco allora – siamo nel 1730 – la rimozione tout court: una mano di “scialbo”, imbiancatura a calce, coprì letteralmente il capolavoro. Nell’Ottocento, poi, vennero addirittura addossati agli affreschi resi invisibili due monumenti funebri. Con perdite irrimediabili del registro inferiore delle pareti laterali: mutilati in questo modo i riquadri raffiguranti “San Francesco che appare a frate Agostino e al vescovo Guido di Assisi” e il commovente “Morte di San Francesco,la cui anima viene portata in cielo dagli angeli”, che reca il “guizzo” narrativo e icastico di Giotto nella figura del frate incredulo Girolamo il quale verifica le Stimmate, chinandosi sulla mano del Santo defunto.

 

Soltanto dopo centoventi anni si “riscopre” la magnificenza solenne di quegli affreschi  nascosti dall’imbiancatura. Accade mentre, nel 1851, si pensa ad una nuova decorazione e si raschia lo scialbo. Ecco che si riaffacciano i colori, i personaggi trecenteschi così freschi nella descrizione pittorica di Giotto. Gaetano Bianchi decide di riportare tutto alla luce: ma scrostando la patina sovrapposta, demolendo i due monumenti funebri, si ferisce l’affresco con inevitabili graffi, abrasioni, cancellazioni. Bianchi decide di reintegrare le parti mancanti, con ridipinture in stile giottesco. Rattoppi che vengono eliminati in un secondo restauro, condotto nel 1957-58 da Leonetto Tintori, guidato dal Soprintendente delle Pietre Dure.

 

Ma quel Giotto più autentico restituisce alla visione scene punteggiate da zone prive di colore, chiazze bianche, spesso di piccole dimensioni. Al punto che gli episodi della vita di San Francesco appaiono come punteggiate da “fiocchi di neve”, nota oggi una restauratrice. “Si vedono prima le stuccature e poi le immagini. Il nostro obiettivo è ora capovolgere la percezione: verrà prima la scena nel suo insieme e poi le zone bianche”. Il restauro perciò procede su più fronti: far aderire le parti di intonaco sollevato con adesivo acrilico, pulire con impacchi di acqua calda deionizzata, integrare con ridipinture leggere le lacune nelle cornici. “La nuova fase sarà quella delle decisioni da prendere sul restauro pittorico –spiega Acidini – Ma già l’indagine finora compiuta ha messo in risalto la pienezza del disegno, il colore raffinatissimo con effetti chiaroscurali e prospettici di grande impatto”.

 

Resta da chiedersi perché il San Francesco della Cappella Bardi sia stato trascurato per oltre un secolo. “Gli ha nociuto il raffronto con quello della Basilica Superiore di Assisi”, è l’opinione di Claudio Strinati, storico dell’arte, per lunghi anni Soprintendente al Polo museale di Roma . Che spiega: “Ci si domandò anche: la Cappella degli Scrovegni di Padova, la basilica superiore di Assisi e il ciclo di Sant Croce sono della stessa mano? Giotto, ovviamente con i suoi aiuti, è dietro tutti questi capolavori? Perché la Cappella Bardi presenta un San Francesco meno assertivo, i presupposti materici caratteristici dell’artista toscano sono meno percettibili. Ma va tenuto conto di quando egli lo dipinse, tra il 1317 e il 1325. Giotto ha sarebbe morto dodici anni dopo. Il suo lavoro è un po’ il canto del cigno, vira verso la meditazione, proprio nel momento del dibattito tra Islam e Cristianesimo. Si guardi il riquadro intitolato La Prova del fuoco: il Poverello è pronto a entrare nelle fiamme davanti al Sultano, con il quale argomenta prima di affrontare il rogo, sorretto dalla Fede. Il pittore, insomma, gli fa compiere una crociata pacifica”.

 

Si potrà interrogare anche su questo chi salirà sui ponteggi di Santa Croce. Un faccia a faccia che spesso ormai collega visitatori e opere d’arte in restauro. Cominciò a promuovere gli “incontri ravvicinati” il grande archeologo Adriano La Regina, Soprintendente alle antichità di Roma. Ricordiamo l’emozione di trovarsi a tu per tu con i rocchi più alti della Colonna Antonina. Succedeva trentasei anni fa. Una prima volta che ha insegnato e giovato molto al Belpaese

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