Passeggiare a Venezia durante i primi trent’anni del Novecento. Rivivere la laguna senza lo struscio dei turisti h24, i panini scartati davanti alla basilica di San Marco. E invece gustarsi i riti, le cerimonie, le processioni tra calli e campielli, lo sfondo del Canal Grande, dei magazzini del sale, scaricato a sacchi presso le Zattere dai forzuti in canottiera. E poi i gondolieri meno smaliziati, le impila perle intente, a crocchi, a realizzare collane, pendagli, bracciali.
E’ la Venezia en plein air, luminosa per le vibrazioni dell’aria leggera, quella che si spalanca in una mostra epocale e inattesa. Epocale perché è l’antologica di Italico Brass, l’artista scomparso ottanta anni fa e pressoché dimenticato, nonostante la fama acquisita attorno alla Grande Guerra.
Inattesa, perché appunto scrolla la polvere da una città che forse anche i veneziani hanno rimosso dai ricordi e dalla consapevolezza identitaria.
Italico Brass invece quella consapevolezza l’aveva tutta perché, pur formato a Parigi, famoso all’estero, applaudito fin dalla prima Biennale (1895, e parteciperà altre quindici volte), mai volle andarsene dalla laguna. Egli che, nato a Gorizia, a Venezia morì e che rianimò, tra l’altro, il sestiere di Dorsoduro e il campo di San Trovaso, dove abitò fino alla morte, nel 1943.
E’ la Venezia en plein air, luminosa per le vibrazioni dell’aria leggera, quella che si spalanca in una mostra epocale e inattesa
Le sue centodieci opere esposte fino al 12 dicembre a Palazzo Loredan, in campo Santo Stefano – Giandomenico Romanelli e Pascaline Vatin i curatori, l’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti l’ente promotore, linea d'acqua l’editore – è un lungo itinerario che si snoda lungo la Serenissima, nei luoghi meno celebri, meno calpestati dalle folle di forestieri.
Un “poema pittorico” che Brass – è il nonno di Tinto, il regista di tante sensuali pellicole, nelle quali l’erotismo è anche una percezione estetica – compone condividendo gli stimoli degli impressionisti ma insieme proiettandosi verso il futuro, per un certo nervosismo che intercettano i suoi dipinti a olio, per fremiti di incertezza che traspaiono dai suoi cieli screziati.
Un percorso, quello tra i quadri esposti – molti inediti e parte del lascito dell’artista alla famiglia - in una Venezia “minore”, certamente mai monumentale, mai banale e stereotipata. Città di popolo, senza distinzioni di classi, fatta di apparizioni della folla, ammassata sui moli, un tutt’uno di vivacità indistinta, come in un’opera del 1911, “La serenata” nel quale domina sullo sfondo un colonnato extralarge colpito da chiara luce, e, sotto, sulla banchina, quasi nel buio della notte squarciato da lampi di fari, la gente distinguibile soltanto dalla minuta tavolozza degli abiti.
Certamente, nella maturazione della personalità artistica di Brass – definito da Elio Zorzi “un fenomeno particolare, un caso isolato per il suo tempo” in occasione della retrospettiva dedicatagli dalla Biennale del 1948, la stessa che vide esposti anche gli Impressionisti e la Collezione Guggenheim – furono fondamentali gli anni della formazione prima all’Accademia di Belle Arti di Monaco di Baviera dove approdò sedicenne e poi a Parigi, dove Brass restò per sette anni.
Di ritorno, nel 1895, si impone in Laguna appunto con l’appellativo di “pittore di Venezia”, che dà ora il titolo alla rassegna. Chioggia e Burano le mete delle sue prime incursioni, poi la personale alla Biennale nel 1910, l’impegno all’estero come “reporter di guerra” (ne danno conto le prime sale dell’esposizione), infine la definitiva residenza a San Trovaso, con la moglie, la russa Lina Rebecca Vigdoff, incontrata a Parigi dove lei studiava medicina.
Brass non è solo pittore. Anima la vita culturale e mondana di Venezia. Artisti, intellettuali, giornalisti, gerarchi si ritrovano nel suo atelier, quella Abbazia Vecchia della Misericordia che egli ha restaurato e che ospita anche la sua collezione di arte antica, poiché Italico è anche mercante d’arte.
Entra nei comitati scientifici di esposizioni (Tintoretto,Tiziano, Veronese), è coinvolto nella organizzazione scenografica di cerimonie sul Canal Grande. Dipinge ricchi e piccola borghesia, artigiani e operai, i caffè di piazza San Marco e i “campassi” delle periferie, la partita di calcio a Sant’Elena, spazi verdi man mano occupati di edifici, mentre impazzano gli exploit del Secolo Breve.
Talvolta è nitido, talvolta il tratto del pennello è allusivo, e le figure sembrano disfarsi. Ecco allora che ne “Il Caffè Florian” il disegno si mostra preciso e il risultato è quasi fotografico. Di contro, i contorni si sfaldano ne “Il Caffè Lavena in piazza San Marco” o ne “Il ponte delle Turchette”. Come se la coscienza di cronista di Brass percepisse, insieme con l’entusiasmo della Belle Epoque, l’inquietudine dei tempi.
Italico Brass ferma nelle tele un’epoca e una città mitica e intatta, anche nelle sue indecisioni. La Venezia che fu parla a noi, ai frettolosi visitatori, ai veneziani immemori o inconsapevoli, ingannati dalla odierna futilità.
Ne “L’autoritratto” la citazione di appartenenza alla città lagunare è netta: siamo nel 1928, la Grande Guerra è lontana, lo sfondo dove davanti alla colonna del Todaro “danzano” personaggi mascherati allude a una ritrovata allegria, dimentica del malessere sotterraneo pronto a turbare l’Europa negli anni immediatamente successivi, sfociando in un nuovo terribile conflitto.
Così, assorti nell’aria ferma e assolata, distaccati quasi dalla realtà, sono l’uomo e la donna di “Conversazione sulla spiaggia”, lui accomodato su una sdraio, in abito chiaro e paglia sul capo, lei di spalle, la testa nascosta dal grande cappello azzurro, i rari bagnanti del Lido sullo sfondo. E un “memento mori” è nel dipinto nel quale ritrae la moglie: un teschio poggiato sul tavolo, accanto al libro che la donna sta leggendo, in mano una matita.
Italico Brass ferma nelle tele un’epoca e una città mitica e intatta, anche nelle sue indecisioni. La Venezia che fu parla a noi, ai frettolosi visitatori, ai veneziani immemori o inconsapevoli, ingannati dalla odierna futilità.