La Liguria sta quasi tutta in un bicchiere. È grande poco più della sola provincia di Brescia, meno dei territori di Sassari, Foggia e Cuneo, per esempio. Eppure sta lì, “lejana y sola”, nel suo poco snobistico isolamento, dovuto in parte a indole e in parte a necessità. Stretta fra Tirreno e Appennino, è una regione scalena dove tutto è difficile, per quanto ripagato allo sguardo da lancinanti squarci di bellezza non sempre intuitivi.
Tracciare qui una strada e costruire una ferrovia sono imprese di conquista militare, più che di ingegneria civile: infatti in gran parte gli attuali percorsi sono retaggio dell’Ottocento, se non addirittura dell’impero romano. Il porto che fu repubblica e regno è al centro di un imbuto rovesciato, che lascia in un deserto affollato le merci allo sbarco. Quando c’è stato bisogno di un’aerostazione venne sbancata una collina e i detriti gettati in mare divennero la pista. A terra non c’era spazio. Forse qui sono stati grandi navigatori e scopritori di nuovi mondi, intensi emigranti nelle Americhe, perché mossi dal desiderio inconscio – come accade ai portoghesi – di lasciarsi alle spalle una landa difficile, scabra, impegnativa.
Figuriamoci, in queste condizioni, fare il vino. Altrove è una cosa naturale: le carezzevoli colline delle Langhe distano non troppo in linea d’aria, così come la valle Padana, panorami ideali per impiantarvi i filari della vite. Ma qui in Liguria ogni centimetro di terreno è una sfida alla geometria, finanche alla forza di gravità. Eppure sulle Riviere la viticoltura, più che un’attività, è un’arte, fatta di silenzio, esilio e astuzia, un disguido del possibile.
Ma c’è Liguria e Liguria. La prima è quella dove le condizioni di impianto e gestione della vigna sono difficili ma non impervie: ed è qui, tra Ponente e Levante, che nascono il Vermentino, varietà di bianco la più diffusa, il Pigato, il Rossese e il Lumassina. Sembra quasi una parvenza di normalità, forse una seria parodia.
Spostando la lente verso l’estremo lembo orientale della regione, la viticoltura diventa prestidigitazione, sport estremo, sfida sfacciata alle leggi del tempo e dello spazio. Le Cinque Terre sono un presepio marino dal fascino fragile, sempre più al centro di un dilemma che affligge tutti i siti turistici che faticano a coniugare numeri e qualità, fronteggiando afflussi dovuti al passaparola ma in difficoltà con il principio fisico dell’impenetrabilità dei corpi. A parte Monterosso al Mare, prediletto luogo montaliano che rispetto agli altri quattro borghi a picco sul mare è capoluogo e proporzionale città, i pugni di case fiorite sulle rocce scoscese sono una meta per le vacanze, con i sentieri da escursionismo, risparmiata in parte dalla relativa inaccessibilità viabilistica. Qui si arriva per lo più in treno, i virtuosi camminando: le strade asfaltate lambiscono rispettosamente dall’alto e da lontano l’incantesimo.
In uno scenario così fiabesco come le Cinque Terre, anche il vino è un sofferto prodigio. In tutto il territorio non c’è un solo metro quadro interamente pianeggiante, lo spazio per la viticoltura va quindi conquistato in modo artificiale, ingegnoso, con la sofferenza e l’abilità dell’uomo. Il trucco dell’illusionista si chiama muretti a secco. Si tratta di costruzioni antichissime, realizzate letteralmente pietra dopo pietra. Una sorprendente trasformazione del terreno: arenaria fatta a pezzi, sempre più piccoli, ordinandoli a parete per creare un gradino riempito con la terra locale. Gradino dopo gradino, dai pendii a precipizio sono stati ricavati, a partire dai dintorni dell’anno Mille, i terreni necessari per impiantare la vite. Ma è un’attività infinita, tra cura e manutenzione, nei cicli secolari delle esistenze che alternano abbandoni e riscoperte. Nel segno di una lunga fedeltà e di una pazienza che prevede una cura senza limiti. I costruttori di navi in bottiglia e di palazzi edificati coi fiammiferi, i solutori dei rompicapo e gli scacchisti sanno di cosa si parli, quando si tratta di garantire la stabilità di un sistema precario per natura.
Sono circa seicento i viticoltori che lavorano in questo museo all’aperto, in una sospensione del tempo contraddetta dall’uso saltuario di mezzi meccanici moderni. Sono vigne quasi verticali, quelle delle Cinque Terre. Perciò ogni operazione è complicata da pendenza, inaccessibilità, assenza di vie di comunicazione confacenti al trasporto delle uve. Non c’era che da inventarsi qualcosa di eccezionale e dal mare sono andati a cercarla in montagna, nel cuore delle Alpi Svizzere.
E dove non è vino non è amore; né alcun altro diletto hanno i mortali
EURIPIDE, le baccanti
Ricorrendo così alla tecnologia in uso ad alta quota, i viticoltori delle Cinque Terre hanno costruito un altro incantesimo: un sistema integrato di piccole ferrovie a monorotaia, minuscoli trenini da trasporto col macchinista che riempie i vagoncini dei frutti della vendemmia, per affrontare pendenze circensi dalla vigna alla cantina. Sono delicatissime anche queste ferrovie a cremagliera, necessitano di un uso sapiente e di una manutenzione altrettanto accurata di quella dei muretti a secco. Purtroppo non sono adibite al trasporto passeggeri, ma il panorama che se ne gode è davvero incomparabile.
Muretti a secco e monorotaie a cremagliera sono uno scenario che i turisti delle Cinque Terre, usi a percorrere i sentieri escursionistici, spesso intuiscono più che vedere, attratti dal ronzio dei trenini carichi di uve. Tutto questo marchingegno incantato, astiosamente patteggiato con la natura leopardianamente matrigna, produce duecentomila bottiglie all’anno del vino Cinque Terre, commerciate in modo accorto e riservato. Di queste duecentomila, due o tre migliaia rappresentano la gamma di elite: lo “Sciacchetrà”, in dialetto locale “schiaccia e tira”: un vino dolce ad alta gradazione, prodotto con uve appassite sulla pianta o dopo la vendemmia. Debitamente invecchiato, viene messo in commercio alcuni anni dopo l’imbottigliamento; e il prezzo, secondo l’annata, può variare dai 100 ai 400 euro a bottiglia. Possono sembrare molti soltanto a chi non lo abbia mai assaggiato, a chi non abbia mai visto da vicino la magia delle Cinque Terre, un prodigio racchiuso in un bicchiere.