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23 ottobre 2023,
di Lidia Lombardi

Ode a Napoli

Clementino cadenza il suo rap, incappucciato nella felpa bianca, l’andatura ondeggiante. “E’ ‘na città ch’ha visto tutte cose…” ritma mentre guaglioni e guaglione gli ballano dietro, nei vicoli. Sollevano la testa, guardano i panni stesi da un palazzo all’altro. La macchina da presa indugia su un lenzuolo bianco che copre la vista, lo inquadra fin oltre il filo al quale è appeso e allora si spalanca Napoli, segata in due da quel rettilineo che appunto Spaccanapoli ha per nome, e la infilza fino a laggiù, alle cupole, alle torri del Centro Direzionale, alla “Montagna”, come chiamano qui il Vesuvio.

E’ la sequenza d’apertura di “Posso entrare? An Ode to Naples”, lo splendido documentario che Trudie Styler, la regista di origine britannica che vive in Usa e in Toscana -  è la moglie di Sting – ha dedicato alla città più sfaccettata del mondo. La pellicola – che ha entusiasmato alla proiezione odierna nella sezione Freestyle Arts il pubblico della Festa del Cinema di Roma, che ha elettrizzato il red carpet perché con la bella Trudie c’era anche l’ex frontman dei Police, asciutto e affascinante nei suoi 72 anni  – è un puzzle di interviste a facce di Napoli, le più disparate, i semplici incontrati nei vicoli, ma anche lo scrittore, l’attore, il cantante, l’artista. 

Trudie è la voce narrante e la macchina da presa la segue mentre infila il suo sguardo negli angoli più disparati, il bello e il brutto, lo sporco e il sublime, il cratere del Vesuvio e i cunicoli sotterranei, il ventre di Napoli scavato nel tufo, dove si venerano i teschi ammucchiati, e a loro si chiede aiuto.

Babilonia è scomparsa, l’Egitto dei faraoni è scomparso, non Napoli. Noi siamo in qualche modo l’ultima delle città antiche

Ha una guida, un Virgilio, Trudie Styler: è don Antonio Loffredo, il parroco illuminato e ribelle del Rione Sanità. Trudie in controcampo racconta come è passato, quel pezzo di Napoli, dalla nobiltà alla miseria, dalla centralità all’emarginazione: colpa di un ponte fatto costruire a inizio Ottocento dagli occupanti francesi che bypassando vicoli e nobili dimore – basta citare palazzo Sanfelice, con l’intreccio barocco delle scale diventate set di innumerevoli film e fiction – sorvolando insomma il rione, lo ha accantonato dalla Napoli che conta.

Don Antonio regge la chiesa di Santa Maria della Sanità: eccolo mentre battezza e poi si toglie la veste talare: “Nella sacrestia c’è la palestra” spiega. I ragazzi vengono a imparare la boxe, istruiti da insegnanti professionisti.  Altri adolescenti suonano, secondo il metodo Abreu: sarà un loro concerto sulle note della colonna sonora di “La vita è bella” a chiudere il film (nelle sale il 6, 7 e 8 novembre) e li ascoltano tutte le persone che Trudie ha incontrato nel suo viaggio dentro Napoli.

Ha parlato con Roberto Saviano, un faccia a faccia in un antico palazzo, dove l’autore di Gomorra sale seguito da quattro guardie del corpo. “Da quindici anni vivo così, sarebbe stato meglio mi avesse toccato una pallottola”. E poi: “Babilonia è scomparsa, l’Egitto dei faraoni è scomparso, non Napoli. Noi siamo in qualche modo l’ultima delle città antiche”. S’affaccia al piccolo balcone, quasi tocca la statua dell’Immacolata. Spiega: “Nel suo viso vediamo la protezione, ma dietro il capo il mantello che svolazza è inteso da noi come una falce che può punire”. Alla Sanità ci sono i camorristi e i figli dei camorristi. “Mio padre è incarcerato per l’attentato al treno Napoli-Milano – dice uno - lo vado a trovare in galera sì, ma sono ventidue anni che non sento il suo odore”.

Don Antonio spiega come cerca di ricostruire un tessuto sociale lacerato. “La camorra è capace di fare compagnia, per questo la mia chiesa si impegna a fare compagnia in un rione abitato principalmente da donne e ragazzi, perché gli uomini, tanti, stanno dentro. E allora si è stretta una alleanza educativa”. Già, una solidarietà fattiva. Ecco il prete in motorino, in sella dietro a un ragazzo, perché lui non ha mezzi per muoversi, ma un passaggio lo trova sempre. Ecco la casa del ciabattino Martone, che da sempre fabbrica scarpe, le donne sono al piano di sopra ed è il giorno che fanno le pulizie. Ecco la portafinestra dove siede la guantaia e corrono rapide le sue mani: le è morta la figlia ma sta sempre insieme a una ragazza che ha perso la madre, hanno costituito una nuova famiglia, suo fratello esce sul balcone e suona il flauto spaziando la vista.

Alessandra Clemente ha visto uccidere accidentalmente la mamma nel 1997. Si chiamava Silvia Ruotolo (era cugina del giornalista Sandro), aveva 39 anni. Ci crede che qualcosa possa cambiare, per questo lotta. Ed è cambiato: “Ora alla Sanità, ai Quartieri Spagnoli si riesce passeggiare”. E fanno presidio le donne del rione. Attorno a un tavolo si siedono le “Forti guerriere”, un comitato che vigila contro le violenza fatta alle donne, nato dopo il femminicidio di Fortunata Bellisario. Fra loro c’è anche la caldarrostaia, Immacolatina. Anziana, occhi belli. Da più di mezzo secolo insieme con Gennaro, il marito, a un angolo della via, vende d’inverno castagne rosolate, d’estate fette di frutta fresca. Lui per un po’ è stato muratore, “ma quando mi hanno chiamato al cantiere delle Vele, beh lì non si sono voluto andare”. Il pellegrinaggio di Styler fa tappa alle Vele. Scova uno che è sfuggito al malaffare, allo spaccio. E’ diventato tassista. Lo inquadra sullo sfondo di un corridoio angusto, fatiscente, come gli usci. “Qui da piccolo ci giocavo a pallone con mio cugino, mi sembrava un posto bellissimo”.

 Quelli che lavorano in strada, che stanno nella bottega, lo fanno da sempre. L’acquafrescaio ha gestualità da teatrante. Spreme il limone, lo versa nel bicchiere d’acqua fresca e ci aggiunge, fulmineo, un cucchiaino di bicarbonato. La bevanda frizza, l’avventore trangugia, tutto d’un fiato, sbrodando dai lati della bocca. “Si chiama limonata a coscia larga”, annuisce affacciato al chiosco, perché bisogna allargare le gambe e piegarsi in avanti per non bagnarsi i pantaloni. Carmine Cervone ha una macchina da tipografo del primo Novecento, e la fa funzionare alla perfezione: “Queste cose a Hollywood non succedono” schernisce la macchina da presa.

Poi ci sono quelli che il riscatto lo hanno agguantato all’ennesima potenza. Jorit, per esempio, famoso anche a New York per la sua street art. Osserva senza ancora credere di esserci riuscito il ritratto di Maradona sull’ex Torre Enel del Centro Direzionale. E quello del Che, e quello di Hamsik. A San Giovanni a Teduccio si prova un testo teatrale. E racconta stavolta Francesco Di Leva, attore per Martone nel “Sindaco del Rione Sanità” e in “Nostalgia” che gli ha dato il David di Donatello 2023 al miglior non protagonista. “In questa palestra abbandonata di una scuola dismessa ho chiamato i ragazzi a recitare. Ho fondato il Teatro Nest. Volevo andare via da qui, poi mi sono fatto una domanda. Ma perché scappare, sono i cattivi che se ne devono andare, tu devi restare e devi lottare”.

Ho una casa in Italia da due decenni, ma come vi dirà ogni napoletano, la Toscana non è Napoli. Sophia Loren l’ha detto meglio: non sono italiana, sono napoletana. Napoli è una cultura a sé. E’ sopravvissuta per tremila anni. Non è affatto una nuova realtà da raccontare, ma ne è una assolutamente straordinaria

Resilienza è la parola che emulsiona il documentario. La usarono, con rabbia, nel settembre del 1943, in quelle Quattro Giornate di Napoli che opposero anche donne e ragazzi alla brutalità dei nazisti. Le rievoca Antonio Amoretti, novantenne veterano di quella rivolta, e intanto scorrono i filmati dell’Istituto Luce. Come altri, della visita di Hitler col pavido re Savoia. Nora Liello, la nuotatrice novantenne che ancora oggi a bracciate percorre un chilometro di mare al giorno, era schierata fra le Giovani Italiane. “Quando il Fuhrer stendeva la mano nel saluto nazista, noi napoletani ci dicevamo: sente se piove”.

 Resilienza e riscatto nel carcere di Secondigliano. Il progetto Metamorfosi fa diventare i detenuti costruttori di chitarre. Istruiti dai maestri liutai. Le ricavano dal fasciame dei barconi di Lampedusa. Le casse armoniche hanno i solchi degli scafi andati in pezzi. Ne conservano i colori, rossi, verdi, azzurri. Silenzio, suona Sting. Concerto acustico, eseguito solo per i carcerati. E’ successo lo scorso aprile.

Adesso un fotogramma fissa il rosso del tramonto tra Vesuvio e mare, con nuvole barocche. Trudie sale fino al cratere della “Montagna”, poi si sposta verso Sorrento, nella campagna di Alfonso Iaccarino, lo chef di Sant’Agata dei Due Golfi. Sta caricando limoni e pomodori sul furgone diretto al suo ristorante. Sono frutti concimati dal terreno lavico. “Il Vesuvio è un monito alla fragilità, la lava uccide e fertilizza. Dalla morte esce la vita”. La voce narrante non manca di recitare l’”Ode a Napoli” di Percy Bysshe Shelley: “…Città Elisia, che calmi con incantesimi l’aria ammutinata e il mare…”. Spiega Trudie Styler: “Ho una casa in Italia da due decenni, ma come vi dirà ogni napoletano, la Toscana non è Napoli. Sophia Loren l’ha detto meglio: non sono italiana, sono napoletana. Napoli è una cultura a sé. E’ sopravvissuta per tremila anni. Non è affatto una nuova realtà da raccontare, ma ne è una assolutamente straordinaria”.

 

 

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