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5 agosto 2024,
di Lidia Lombardi

Zona protetta

 

“Felicità”. Una parola strana in bocca a ragazzi che passano l’adolescenza nelle “case famiglia” perché dalle proprie famiglie, quelle biologiche, sono dovuti uscire per maltrattamenti, per le intemperanze che ne hanno fatto dei tipi difficili, per abbandono e disamore, il più innaturale, da parte dei genitori. Perché, anche, chi li ha messi al mondo è morto drammaticamente, perché sono spaesati immigrati. Eppure felicità è la parola più volte pronunciata dai dodici protagonisti di “Zona protetta”, la docu-serie in cui cinque giovani registi – quattro sono usciti dalla “Scuola d’arte cinematografica Gian Maria Volonté” di Roma, l’altra dalla “Civica Luchino Visconti” di Milano – raccontano i quasi coetanei passati per l’esperienza appunto della “zona protetta”, in comunità. Un’operazione di grande valore sociale, dal 28 giugno su Raiplay e in onda in terza serata su RaiTre fino all’11 agosto.

Insieme, un lavoro capace di coinvolgere emotivamente gli spettatori. Perché i dieci episodi, ciascuno della durata di 25 minuti, coprodotti da RaiFiction e Kon-Tiki Film con la supervisione di Andrea Porporati e Daniele Vicari, uniscono l’appeal della storia vera, raccontata da chi realmente la sta vivendo, con la freschezza dello sguardo dei film-maker, mai finto, mai compiacente, mai edulcorato, invadente o artificialmente crudo, capace per questo di toccare naturaliter piccoli-grandi acme di poesia.

 

 

Eccole, allora, le storie di Vanessa, Blessing, Mahmoud, Khansas, Nicoletta, Andrea, Maria Sole, Sharon, Marta, Diana, Maria Pia, Youssef. Ciascuno con il fardello di sofferenza, ciascuno alla ricerca di un ubi consistam, ciascuno pronto a mollare, annullarsi, farsi esistenzialmente del male. Epperò snidato nel proprio abbandono dal tutor, dalla psicologa, dalla guida morale, materiale, affettiva incontrata nella casa famiglia e nel Forum Prevenzione. Sicché il vuoto di speranza impercettibilmente si trasforma in cammino di speranza, progetto di futuro, pane vitale mollica dopo mollica. Come un seme secco che lentissimamente diventa frutto, dice con una metafora Maria Sole. Molti dei “personaggi-persone” sono colti nel momento del passaggio dalla zona protetta al mare aperto della vita. Escono dalla comunità e s’avviano verso l’autosufficienza. Alcuni scappano, ma poi rientrano e allora costruiscono. Possono raggiungere vette insperate, oppure tornare al paese. Però consapevoli di sé.

 

“La società si accorge di questi ragazzi quando rompono le scatole e il compito più difficile è aiutarli a reggere il dolore che gli hanno dato gli adulti”, è il refrain che introduce ogni episodio. Poi si entra in medias res: seduto su un cubo grigio, sfondo bianco, mezzobusto o piano americano, uno ad uno si raccontano. Il docu si sviluppa negli interni della casa famiglia, negli esterni tutt’intorno. Un paesaggio estraneo, infine divenuto familiare. La macchina da presa fa introspezione con primissimi piani, incrocia la faccia del protagonista e della sua “guida”, un padre o una madre acquisiti. Ci si scontra, ma si scava. E la regia segue passo passo persone e cose, disegni infantili, fotografie, oggetti.

 

 

Comincia Vanessa dagli occhi grandi, entrata nella casa famiglia “Il Girasole”, a Subiaco. Con Otilia, che la segue in comunità, pratica lo “yoga del sorriso”.

 

Da quando aveva cinque anni ha fatto da madre ai suoi fratelli, nel campo rom. “Mamma è sparita, non l’hanno trovata né morta né viva”, confida di fronte all’obiettivo di Pietro Porporati. Ed è arrabbiata, perché i quattro fratelli “li ho cresciuti e non stanno con me”. Fa visita al suo passato: una giornata al campo rom, porta un pacco di biscotti alla zia, entra nella baracca dove ha vissuto, ragnatele e una bottiglia ancora mezza piena.

 

“Dormivo per terra e quando succedevano cose brutte mettevo una coperta sulla testa e tappavo le orecchie”. Adesso è un’altra, in camice bianco per un corso da OS, un titolo che le permette di lavorare. Cammina nel verde, accanto al suo ragazzo. “Il futuro lo vedo che ci andrà bene”.

E poi c’è la storia di Maria Sole, che se n’è andata dalla “zona protetta” de “La Vela” di Santa Severa prima del tempo, tre giorni in giro, ritrovata dai carabinieri, una lavata di capo, poi l’accordo  con la referente, Paola Sabocchia, un percorso di semi-autonomia. La macchina da presa di Giulia Cacchioni la inquadra dietro a un’inferriata del giardino, il mare e il vento stanno fuori. “La comunità è una risorsa della società, non luogo banale ma di grande pensiero”, riflette.

 

Così il trolley rosa che dai sei anni si porta appresso nei traslochi da una casa famiglia all’altra –perché la madre è stata consumata da anoressia a stupefacenti e “il core non ha retto” – adesso che Maria Sole lavora in un ristorante, ha una casetta con qualche mobile comprato al mercatino dell’usato, con il suo compagno si tiene un cagnolino trovato mezzo morto vicino a un cassonetto, quel trolley rosa se lo porta appresso anche per andare sugli scogli, d’autunno, sullo sfondo del Castello, gli ombrelloni chiusi. “La zona protetta è finita, s’è aperta ‘sta cupola”.

 

 

 

Ce l’ha fatta anche Sharon, però al prezzo di uno iato con la sorella Marta, un litigio, un’incomprensione da amore-disamore che le ha divise, loro venute da Torri  in Sabina quasi rifiutate dai genitori ed entrate insieme a “La Vela”. Sharon frequenta l’università telematica, lavora nella struttura che l’ha accolta da utente. Marta è “tornata indietro, dai suoi”. E’ la più fragile, la scrittura è compagnia ma anche un gancio con Sharon, a lei ha dedicato i primi versi.  Il docu la segue nelle viuzze di Torri in Sabina, nel cimitero dove porta un fiore alla nonna, nella casa di Lucia dove impara un po’ a cucire, dal barista amico di sempre che le suggerisce “l’acqua sciacqua, il sangue lega”. Allora Marta prende il treno e rivede dopo troppo tempo Sharon. “Lei mi aiuta tanto” dice di Marta. “La vita è un campo minato/dove ognuno di noi è un soldato”, ha scritto la sorella scappata. Ha affiancato la sarta Lucia a realizzare abiti da sposa. C’è anche lei alla sfilata, la gonna lunga e bianca, il corpetto porpora. Nei vicoli di Torri, di sera, è sola sotto la luce gialla dei lampioni.

 

L’ultimo episodio della docu-serie è come una parabola, ma nient’affatto scontata. Dice di Youssef, origini marocchine, infanzia di rifiutato a Bolzano, “ero il bambino con cui nessuno voleva giocare”. A sedici anni si sfoga sul campetto di calcio con ragazzi come lui, “taciturno, pieno di rabbia compressa”, dice Stefano Rossetti, del Forum Prevenzione. Poi passa agli incontri di boxe clandestini, lo denunciano, gli vogliono togliere i sussidi. Stefano tramite gli assistenti sociali lo fa iscrivere a una palestra. “Avevo gli arresti domiciliari, non aspettavo altro che andarci, in palestra, questa fame che avevo mi ha portato a fare i primi incontri regolari”. Si allena come sia un’ossessione, fa la dieta, mai tardi la sera, tallonato da Francesco Nicotera, il titolare della scuola boxe, il “maestro”.

 

Conquista una finale nei campionati italiani, ma perde il titolo. “Cavolo, non la poteva vincere, non tanto per il futuro professionale, ma per quello personale”, riflette Rossetti. La cena in famiglia, la preghiera ad Allah , inginocchiato. “Dio mi ha messo alla prova facendomi conoscere quelli che ho conosciuto. La mia religione dice che il destino è scritto. Se Dio non ha voluto è perché ha per me qualcosa di più grande”. Guida la macchina e ascolta un rap, si ostina negli allenamenti. Suona l’Inno d’Italia nella finale a Chianciano dei campionati under 22, kg 60. Youssef c’è.

 

Chissà che fine faranno lui e gli altri, a partire da Blessing, che festeggia i diciotto anni nella comunità e poi deve andarsene, senza sapere dove. E’ pronto, però. E l’incontro con i giovani film makers – Chiara Campara, Giulia Lapenna, Giansalvo Pinocchio, oltre a Porporati e Cacchioni – è stato un ulteriore tassello da incastrare nella vita. Ma intanto già fa un bilancio Youssef: ”Perché non dovrei essere felice?”

 

 

 

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