Vorrei riunire nella mia mano le vostre case, e come il seminatore disperderle in prati e foreste. Vorrei che le vostre strade fossero valli e verdi sentieri i vostri viali, affinché poteste cercarvi l’un l’altro tra le vigne e ritrovarvi con l’abito odoroso di terra.
Kahlil Gibran, il profeta, 1923.
Nessuno costruisce più case, neppure quelli che potrebbero. Al massimo le comprano ed è un peccato, perché si è smarrita quella tendenza, a metà tra vezzo e guizzo, a raccontare se stessi nell’edificazione di un autoscatto abitabile. Il canone storico non manca di esempi: dal parco dei mostri di Bomarzo voluto dal principe Vicino Orsini alla Scarzuola disegnata da Tomaso Buzzi, da quel capriccio torinese di Alessandro Antonelli che si può chiamare Casa Scaccabarozzi oppure Fetta di Polenta, un bizzarro esercizio di stile che tradisce il lato eccentrico di un progettista altrimenti quasi compunto nella sua stilizzata religiosità, fino alle scelte definitive di Curzio Malaparte a ridosso dei Faraglioni, una casa finita anche nel cinema di Godard, e, naturalmente, di Gabriele d’Annunzio che si specchiava nel Vittoriale gardesano.
Anche in Liguria, terra piccola e quasi senza iato tra mare e collina, figurano esempi di questa tendenza ormai perduta a fare della casa un memoriale che vive. A Ponente, sulle alture di Oneglia, recentemente recuperata a quell’oblio di molti anni che spesso affligge la Bellezza, fragile e quindi impegnativa, sorge la Villa Bianca che fu di Adrien Wettach in arte Grock. I casi della vita avevano portato sulla riva del Mar Ligure di Ponente il circense svizzero, poco avvezzo al nascente cinematografo e quindi subalterno a Chaplin, peraltro anch’egli nato sulle piste di polvere di legno, nel ruolo di massimo uomo di spettacolo del primo Novecento. Visse e si esibì in tutto il mondo, negli anni in cui alle guerre si alternavano esagerate euforie, eseguiva numeri di altissima acrobazia in simbiosi con gli strumenti musicali e gli oggetti più comuni. Quando lasciò la pista, era ricchissimo e così affidò a un amico genovese, il geometra Armando Brignole, il compito di disegnare la sua residenza.
A distanza di decenni, Villa Grock (aperta al pubblico, visitabile come Museo del Clown) ha perso gran parte degli arredi originali, acquistati da un imprenditore circense. Restano l’edificio che riecheggia la personalità inafferrabile di un artista arduo da classificare, atleta illusionista e predicatore, modello di uomini di spettacolo come Federico Fellini, Dario Fo, Maurizio Nichetti e Gabriele Salvatores. I suoi show, i suoi numeri erano acidi, cattivi, disturbanti. E la villa coniuga elementi neogotici e art déco, suggestioni gaudiane e vetrate alla Mondrian. Visitarla infonde una sensazione di smarrimento e ammirazione: per Grock, di cui restano vaghi reperti filmati, per un mondo come quello del circo anch’esso pericolante e inattuale. La villa e il parco e il laghetto sono disseminati di indizi sulle convinzioni iniziatiche del clown, adepto della Massoneria e cultore dell’astrologia. Come se avesse deciso di tenere un ultimo e infinito spettacolo, attraverso un desiderio di persistenza divenuto eco sempre più fievole, ricordo del ricordo di un applauso.
Aveva scelto invece l’Aurelia di Levante, nel tratto di estenuanti saliscendi tra Zoagli e Chiavari, e uno sperone di roccia a strapiombo sul mare, un altro artista dalla vita piena di altre vite. Il drammaturgo Sem Benelli fu eroe della prima guerra mondiale e reietto della seconda, fascista e antifascista, eroe e reietto, amico e poi avversario del Vate. Oggi è soprattutto uno dei grandi dimenticati del nostro Novecento. Rimane appunto questo stravagante castello affacciato sul Tirreno, edificato alla vigilia del primo conflitto su progetto di uno scenografo teatrale di fiducia del letterato.
Come gli scritti di Benelli rasentavano l’antico e l’inattuale, così il suo castello sembra risalire a secoli remoti, quando invece sorse agli inizi del Novecento. Come per Villa Grock, l’occhio esperto decodifica la radice antistorica dalla concrezione di stili adoperati, dal neogotico al medievale, in un’esagerazione di marmi colorati, pietra a vista e maioliche e – anche in questo caso – di richiami alla simbologia massonica. Una geniale scala a chiocciola in ferro sospesa nel vuoto della torre è l’emblema di un’ambizione fuori misura. Avrebbe dovuto essere un monumento risarcitorio all’oblio cui le cose della vita avevano dannato Benelli, divenne il motore immobile della sua rovina. Poco accorto nell’amministrazione dei suoi beni, travolto dall’ambizione di fare del Castello la sua Sagrada Familia come tempio di grandezza personale, da una spesa dissennata all’altra il letterato fu costretto al peggiore dei contrappassi.
Dovette vendere il maniero a un industriale milanese, accettando la singolare pena aggiuntiva, dantesca quasi, di trasferirsi fino alla morte nella casetta del giardiniere, modesta pertinenza nel perimetro del parco. Quasi una commedia, ma di Thomas Bernhard. Il Castello fu frazionato in appartamenti privati, venduti e ricomprati e rivenduti nel tempo nel segno della dimenticanza. A far calare il sipario sul castello delle beffe, l’ultimo evento aperto al pubblico ad esservi officiato fu un concerto di pianoforte, alla tastiera la celeste misantropia di Arturo Benedetti Michelangeli.
Dalla torre del maniero Benelli, guardando a Levante, non si vede quella che per chi scrive è la casa più bella del mondo. Perché sta sul lato opposto della penisola che a Sestri Levante chiamano “isola”, poco distante dalla torretta dei Castelli Gualino, altra utopia antichista disseminata nel verde oggi grande albergo, dove Marconi aveva compiuto i primi esperimenti di radiotrasmissione. Bisogna arrampicarsi sul costone della Mandrella, che sale dalla Baia del Silenzio, per vedere Villa Domus: inimmaginabile edificio razionalista, bianco e poggiato su un costone di roccia a picco sulla scogliera. Incongruo e mirabile. Lo disegnò, per un possidente genovese, il maestro Luigi Carlo Daneri, nel segno della scuola italiana guidata da Marcello Piacentini.
La Casa della Cascata di Frank Lloyd Wright, che alcuni vedono come la sorella ignota della casa ligure, non ha però a disposizione l’alto Tirreno, su cui affaccia la villa, un clamoroso esempio di quel gioco dei vuoti e delle ombre e degli angoli che fu la cifra di quella corrente architettonica, dove anche gli spazi inedificati vengono conglobati nel progetto. È rimasta per fortuna tale e quale fu costruita, non è stata toccata se non per la manutenzione. Il parco circostante, la piscina, l’accesso diretto al mare sono pertinenze che sublimano l’eccellenza di una casa che assomiglia a un sogno. Con le leggi urbanistiche di oggi non si potrebbe nemmeno pensare di costruire una casa, neppure una casa così, in un posto così, ma in questo caso sarebbe stato davvero un peccato. Non è abitata con continuità da tempo, è in vendita per una cifra apparentemente siderale, in realtà non si può dare un prezzo a un desiderio.
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