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4 novembre 2023
di Stefano Rissetto

Finale di partita

Million dollar baby 
Million dollar baby 
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La vita imita il cinema, sembrerebbe; ma lo sport va per conto suo, come se non c’entrasse davvero con le nostre esistenze, come se ne fosse soltanto approssimativa eco, imbozzolato in una sua realtà autonoma. Prima ancora di prevedere le dimissioni di un Papa, sul finire degli anni Ottanta, a pochi mesi dall’abbattimento del Muro di Berlino, Nanni Moretti aveva colto gli scricchiolii inesorabili del suo Pci, che sarebbe di lì a poco imploso per l’effetto domino della dissoluzione del blocco sovietico; e per raccontarli aveva scelto una partita di pallanuoto.

“Palombella rossa” è forse il film più riuscito che parta da uno sport, per giunta neppure tra i più popolari, per raccontare molto del resto, se non tutto quel che conti. Il monologo nel prefinale spiega perché lo sport in sé sia difficile da raccontare al cinema: "Io m’aspettavo di più… m’aspettavo di più dalla vita, di più, e meglio. Anche se questa pizza qui, lo spogliatoio... Ecco il motivo per cui per venticinque anni ho giocato a pallanuoto, che è uno sport che poi non mi piace nemmeno tanto. Però queste trasferte, i pullman, gli autogrill, il pubblico che ti insulta, che ti sputa addosso, i calci degli avversari: beh, tutto questo è bellissimo". Non sono insomma la disciplina e le sue vicende che contano, ma quel che le contorna.

Per esempio il calcio. In Italia, al di là di farse pur riuscite come quella di Alberto Sordi presidente dell’immaginario Borgorosso e Lino Banfi allenatore dell’altrettanto virtuale Longobarda, per molto tempo abbiamo avuto soltanto “Ultimo minuto” di Pupi Avati, con tutta l’amarezza di Tognazzi che non riesce a sopportare il lieto fine; perché la vita non ha lieto fine, figuriamoci il calcio.

Poi finalmente anche Paolo Sorrentino è tornato al calcio, perché pochi ne ricordano il film di esordio, “L’uomo in più”, un lavoro sul tema del doppio e dello smarrimento e c’era già Toni Servillo. "Il calcio è un gioco e lei è una persona fondamentalmente triste" diceva il presidente a quello dei due Tony Pisapia che faceva l’allenatore.

“È stata la mano di Dio” lambisce soltanto Diego e il suo primo scudetto, ed è forse questo il solo modo di raccontare il calcio

Il regista napoletano ha ripreso lo snodo di quando, senza saperlo, Maradona gli aveva salvato la vita, chiamandolo allo stadio anziché nella villetta di famiglia a Roccaraso dove i genitori sarebbero stati soffocati dal monossido: “È stata la mano di Dio” lambisce soltanto Diego e il suo primo scudetto, ed è forse questo il solo modo di raccontare il calcio: parlare d’altro. El Pibe de Oro ha ispirato anche Emir Kusturica, abile a raccontare nel suo stile quello che per Sorrentino sarebbe stato il Monaciello, spirito inafferrabile che governa le vite degli altri.

Un altro sport difficile da narrare al cinema, anche perché cristallizzato nell’attualizzazione prima dalle motociclette e poi dall’elicottero, è il ciclismo: la filmografia italiana è inesorabilmente ferma a “Totò al Giro d’Italia”, una delle tante pellicole d’occasione girate a spremere il misconosciuto talento lunatico del principe de Curtis. Una storiella alla buona per quanto arguta, emblema del brillante artigianato cinematografico italiano, con i campioni del tempo (Coppi, Bartali, Bobet, Schotte, Kubler, perfino Nuvolari…) ridotti a comparse a fronte del genio mal gestito del comedian napoletano.

Per restituire, nel buio di una sala, malinconia e mistero del ciclismo - dove pure sono passati, come fugaci folate di fuliggine, ragazzi inchiodati a se stessi come Frank Vandenbroucke, l’uomo che vinse una Liegi e morì lontano da tutti in Senegal - c’è voluto un cineasta francese, capace in seguito di omaggiare Jacques Tati e Marcel Proust: Sylvain Chomet, con “Les triplettes de Belleville”, arrivato in Italia con un titolo fuorviante, “Appuntamento a Belleville”.

È un gioiello incantevole, un film di animazione dove Glenn Gould va a braccetto con l’avatar di Fausto Coppi che la nonna va a riprendersi in pedalò in America, inseguendo una nave sulle note del Kyrie della Messa in Si minore di Mozart. Anche questa è una storia dove lo sport è soltanto un punto di partenza, fino a seminare il dubbio che il ciclismo non sia davvero uno sport, ma piuttosto un metro per accordare all’infinito le esistenze di chi vi si consacri.

Al cinema, funzionano le storie di personaggi che svettano di là dalla disciplina praticata: dal pattinaggio su ghiaccio la cattiva ragazza Tonya Harding, per esempio, oppure quel che raccontano Clint Eastwood e Hilary Swank in “Million Dollar Baby”, l’abbraccio inesorabile tra la vita e la morte, così come sempre sul ring il “Toro scatenato” di Martin Scorsese, che solo fino a un certo punto narra di Jake La Motta.

Quel che raccontano Clint Eastwood e Hilary Swank in “Million Dollar Baby”, l’abbraccio inesorabile tra la vita e la morte, così come sempre sul ring il “Toro scatenato” di Martin Scorsese, che solo fino a un certo punto narra di Jake La Motta

Oppure i dualismi, riproposizione in chiave contemporanea degli archetipi omerici: Niki Lauda contro James Hunt, Bjorn Borg contro John McEnroe, eroi antichi contrapposti da una diversità che sfuma nel bisogno dell’altro, come Giovanni di Pannonia e Aureliano di Aquileia, i due teologi di Borges. Si odiano per scoprire che senza l’antagonista sarebbero stati orfani di se stessi.

Ci sono poi epifanie in cui la metafora sportiva fa da chiave musicale a una sceneggiatura: più che un fugace accenno al tennis, “Match Point” di Woody Allen è il completamento della trilogia della colpa con “Broadway Danny Rose” (sembra una farsa, è il film più compiutamente e dolorosamente ebraico dell’opus alleniano, il Libro di Giobbe destrutturato) e “Crimini e misfatti”, è la spietata indicazione del peso della fortuna, quindi del caso, in un mondo dove Dio è un sole nero che divora e non illumina, sui nostri destini, per un delitto senza castigo acre come il capriccio della pallina che danza sulla rete.

Dicono sia uno sport, per lo meno quelli che la praticano, anche la caccia. Ma è veterotestamentaria la caccia al cervo di De Niro, Cazale, Walken e Meryl Streep, simbolico preludio alla discesa agli inferi nel delta del Mekong di un gruppo di ragazzi che amavano non i Beatles e i Rolling Stones, ma Frankie Valli e un brano cantato tutti insieme ai bordi di un biliardo.

È una sfida sulla linea d’ombra, una lotta contro quel buio che pulsa dentro ognuno di noi. "Tu devi contare su un colpo solo, hai soltanto un colpo, il cervo non ha il fucile, deve essere preso con un colpo solo. Altrimenti non è leale". Anche questa non è soltanto caccia, non è soltanto presagio della guerra che tutto scompaginerà, non è nemmeno nostalgia dell’avvenire. È lo sgomento che prende, sempre, in ogni finale di partita.

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