La bocca delle gallerie e il mare di Napoli colorano le verande (180 gradi di visuale) nel salottino belvedere in testa all’Etr 252 “Arlecchino”. Il cinema sui binari. L’elettrotreno prodigio della tecnica ferroviaria nazionale, creato per le Olimpiadi del 1960, torna sulle rotaie con il ‘corpo’ ancora appeso nel Dopoguerra e lo ‘scheletro’ - forgiato con le tecnologie più avanzate - proiettato nel futuro.
I passeggeri, adagiati sulle poltroncine girevoli, canticchiano sulle note di “Sapore di sale” e “Cuore matto”. Campanili, vigneti, incroci di ferro, onde e scogli sfrecciano sotto gli occhi mentre le spremute di melograno (servite da personale in smoking bianco) si consumano lentamente.
L’Arlecchino – tinte pastello per ogni carrozza - parte puntuale di buon mattino dalla stazione di Roma Ostiense diretto al Museo nazionale ferroviario di Pietrarsa (tra Napoli e Portici) - tempio del made in Italy - per celebrare i dieci anni della Fondazione Fs Italiane.
Mario, 6 anni, è il passeggero più giovane del gruppo. Sale sul convoglio insieme a esponenti del governo - la ministra del turismo Daniela Santanchè e il sottosegretario alla cultura, Vittorio Sgarbi - e di Fs. Occhi sgranati: il solo ‘muso’ del treno (ricorda un aereo) è ben più grande della sua cameretta.
“Fateci passare”, urla zia Mara Venier, (madrina della giornata) mentre un Frecciarossa cede il passo al treno storico lanciato alla velocità massima di 160 chilometri all’ora. Quando mancano pochi chilometri all’arrivo, l’Arlecchino imbocca la galleria scavata sotto Napoli e rallenta la marcia. Sopra c’è piazza Garibaldi. Poi riemerge dal buio e calca il primo tratto di ferrovia costruito nella Penisola: la leggendaria Napoli-Portici (7.411 metri) inaugurata il 3 ottobre 1839 nel Regno delle Due Sicilie. La storia corre sulle rotaie.
L’elettrotreno arriva a destinazione in anticipo di una manciata di minuti. La stazione di Pietrarsa-San Giorgio a Cremano è a pochi metri dal museo nazionale ferroviario dominato dal Vesuvio e dal mare. Nel piazzale l’imponente statua in ghisa di Ferdinando II di Borbone scruta l’orizzonte: Capri, la penisola sorrentina, Posillipo fino alla costiera dei grandi alberghi. Il museo si estende su un’area di 36mila metri quadrati. Qui nell’Ottocento si sudava senza sosta nelle officine borboniche per produrre ghisa e armamenti. Poi il passaggio a fabbrica per la riparazione di locomotive a vapore. Infine, la riconversione in museo grazie agli investimenti della Fondazione Fs che ha riqualificato l’area nel frattempo abbandonata. Luogo di sofferenza fisica in passato. Spazio di pace e memoria adesso.
“Fateci passare”, urla zia Mara Venier, (madrina della giornata) mentre un Frecciarossa cede il passo al treno storico lanciato alla velocità massima di 160 chilometri all’ora.
La collezione si compone di oltre 55 rotabili storici: locomotive, carrozze, macchinari, modelli e plastici ferroviari. La mitica Bayard (entrò in servizio nel dicembre 1839) è in bella mostra in fondo alla sala. Fu la terza locomotiva a circolare, dopo la Vesuvio e la Longridge, sulla prima linea ferroviaria d’Italia. E’ circondata da una flotta di cugine, troppo anziane per sbuffare, divise da una grande platea dove si organizzano concerti e convegni.
Intanto è ora di pranzo e tra le carrozze d’epoca si svuotano i vassoi di pasta alla siciliana. Così il made in Italy riempie la vista ma poi finisce dritto nello stomaco. Perfettamente a suo agio, a bordo di una “Varesina” degli anni Trenta, Luigi Cantamessa, direttore generale della Fondazione Fs Italiane, accarezza il velluto verde che ricopre le poltrone in legno. Cuore e mente della Fondazione è un predestinato: nella camera da letto, a 7 anni, accanto al cappellino da capostazione c’era il poster: “Le Fs sono il nostro futuro” e la t-shirt con la scritta “I love treno”.
“In questo luogo - spiega a Mag – è racchiusa la storia d’Italia e del costume italiano”. Una storia custodita ancora nei borghi medievali, nelle valli, nei laghi. Gemme spesso dimenticate che la Fondazione Fs sta rilanciando promuovendo il turismo lento, di prossimità a bordo dei treni storici lungo tutto lo Stivale. Nella carrozza della “Varesina” (treni tipici della Milano-Varese) la mano sulla vetrata spinge il finestrino in basso. “Dai finestrini che si aprono - spiega Cantamessa – si scopre l’Italia dimenticata: i fiumi, i ponti, i campanili, i viadotti. Viaggiando su alcune linee ferroviarie dell’entroterra attraversando i paesini a mezzogiorno si sente ancora il profumo del sugo”.
Simbolo del ‘miracolo economico’ e di un’Italia che rinasceva dalla guerra, “Arlecchino” è il fratello minore del “Settebello”: forme aerodinamiche, eleganza nell’arredo, il design italiano sulla strada ferrata. Fu il treno delle Olimpiadi di Roma del 1960, sfornato dalle Officine Breda di Sesto San Giovanni. Il suo logo multicolore formato dagli scacchi della maschera veneziana divenne la bussola per turisti e sportivi che si spostavano sull’asse nord sud Milano-Roma-Napoli.
Dopo mezzo secolo, con un nuovo sprint agonistico riparte verso la Capitale. Il pezzo di identità nazionale scivola sul ferro e rientra a Roma all’ora dell’aperitivo. Fermo sulle rotaie, lo sguardo dell’Arlecchino oltrepassa i muri della stazione. Il silenzio di Pietrarsa, il giardino botanico al centro del museo, il blu del mare sono già un ricordo. A Ostiense la musica è finita. Il sipario si chiude sui clacson delle auto incolonnate. La strada è una giungla. C’è lo sciopero dei mezzi pubblici. Il piccolo Mario scende dal treno, si guarda intorno e, stretto alla mano della madre, cammina lento tra la gente che corre. Lento come il viaggio sull’Arlecchino dove il made in Italy trotta sui binari tra passato e futuro.
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