“Sembra vino”, disse Nenè, il bambino maleducato e intelligentissimo che Leonardo Sciascia racconta quale piccolo tiranno di un interminabile viaggio in treno da Roma alla Sicilia. “Sembra vino”, dice guardando il mare dal finestrino, ma è la voce dell’autore che si camuffa nella sua per risvegliare tra gli adulti un incerto ricordo, preso poco sul serio, del celebre oinops póntos omerico. Che loro sì, i grandi, hanno forse già sentito ma poi chissà. È l’antico colore del Mediterraneo, o è come gli occhi antichi lo percepivano e noi non più, e allora “forse è anche daltonico” il bambino Nenè, o forse “ha colto qualcosa di vero: forse l’effetto, come di vino, che un mare come questo produce. Non ubriaca: si impadronisce dei pensieri, suscita antica saggezza”. È questo mare “un immenso archivio e un profondo sepolcro”, ha notato lo scrittore croato Predrag Matvejević nel suo “Breviario mediterraneo”, la più densa e intensa guida letteraria forse mai compilata sul nostro mare, probabilmente la più bella, dove diventano poesia anche i fari, le bitte, i cordami e le boe.
Sicché quando la scrittura non risponde alle esigenze della cronaca, o della documentazione scientifica, ci si ricorda che ha il piacevole dovere di ridestare il dubbio, o la certezza, di un’altra dimensione intellettuale: “profondo sepolcro” è stato sì il Mediterraneo e non oggi solamente, ma dal principio della Storia, e ciascuno avrà quantomeno un caso, un esempio spontaneo attinto a quelle pagine che solo per distanza temporale non chiamiamo più “cronaca”. Per chi è nato o è cresciuto nel Meridione d’Italia, la memoria genetica se non certi connotati fisici testimonia di scambi, conflitti, contaminazioni e tesori non soltanto materiali ma culturali che sono stati presi o persi, rubati e regalati.
I cibi, le fiabe, le leggende popolari, le etimologie linguistiche sono registrazioni del passato su nastri sbiaditi che talvolta possono riavvolgersi e in certe parti essere riascoltati. Bisogna avere gli occhi puliti di Nenè, il bambino di Sciascia, ossia ritrovare lo sguardo incondizionato che dimenticando tutto può ricordare Omero e vedere “il colore del vino” in quel mare che le cartine scolastiche e le mappe di Google ci restituiscono di un convenzionale, innaturale azzurro finto. Oppure bisogna calarsi nelle lingue antiche e in qualche scorcio se non intatto almeno poco violato per ottenere, come il professor La Ciura del racconto capolavoro di Tomasi di Lampedusa, “Lighea”, il privilegio di incontrare una sirena e allora siamo noi con lei fuori dal tempo. Con la momentanea abolizione della Storia.
“Il Mediterraneo”, dice ancora Matvejević, “ha innalzato monumenti alla fede e alla superstizione, alla grandezza e alla vanità”. Indispensabili e terribili, fra il progresso e il sangue. Mi affascinava, certe mattine giovanili, tornare nella chiesa napoletana di Santa Caterina a Formello vicino a Porta Capuana per rivedere esposte le centinaia di teschi decapitati dei Martiri di Otranto che vi vennero traslati dalla Puglia, e immaginare la tremenda scena di quell’esecuzione di massa nel cocente agosto del 1480, ordinata da un ammiraglio del sultano Maometto II per punire il rifiuto alla resa e poi alla conversione. Sono eventi impressi nella memoria collettiva: l’arrivo dei “turchi”, lo sbarco dei saraceni che una canzone secentesca, “Michelemmà”, racconta sotto forma di ratto e di stupro. E che Gioachino Rossini, nel primo Ottocento, raddolcisce e sminuisce nell’arrivo galante di un “turco in Italia”. Affascina pure, dentro la musica, la facilità di ritrovare nelle scale musicali della scuola napoletana, o nei richiami dei venditori ambulanti raccolti nel diciannovesimo secolo, le cadenze arabeggianti che ricordano la consistenza dei debiti culturali verso quel mondo amico e nemico, carnefice e vittima, con cui si commerciò e si combatté, al quale s’insegnò e da cui s’imparò nel corso dei secoli.
Perché già molto prima, dai greci agli egizi, l’Oriente era approdato sulle coste meridionali non solo con le merci ma con i culti religiosi: stoffe e spezie ma anche l’apparizione di Iside, Mitra, di una folla sacra così grande da indurre Petronio, scrivendo di Napoli, ad affermare che gli pareva “più facile incontrare un dio che un uomo” in questa città dove da est era approdato Virgilio, protettore magico di Partenope che col suo corpo giunse da Brindisi; dove sempre da est sarebbe arrivata la vergine Patrizia, nipote di Costantino imperatore e futura compatrona della città accanto a Gennaro. Perché c’è l’ossessione di una vergine lunare che attraversa questo mare dalle sponde dell’Islam a Gibilterra, e sarebbe esplosa a Napoli con le Madonne “nere”: quella del Carmine o Vergine Bruna, quella di Montevergine o “Mamma Schiavona” per l’incarnato scuro del viso (scusate il repentino passaggio dal sacro al profano e dalle vergini alle dive: ma come dimenticare che le due grandi icone di bellezza, Sophia Loren e Claudia Cardinale, nacquero l’una a Pozzuoli e l’altra a La Goulette, avamporto di Tunisi).
Come per le tracce linguistiche, quelle toponomastiche rivelano gli strati di una storia, di una cultura popolare che persino se prosegue in forma carsica agisce sull’immaginario collettivo, sicché si trova nel cuore di Napoli, e col suo nome battezza certe strade, la statua del dio Nilo lì dove s’era stabilita una colonia alessandrina
Come per le tracce linguistiche, quelle toponomastiche rivelano gli strati di una storia, di una cultura popolare che persino se prosegue in forma carsica agisce sull’immaginario collettivo, sicché si trova nel cuore di Napoli, e col suo nome battezza certe strade, la statua del dio Nilo lì dove s’era stabilita una colonia alessandrina. Avrebbe resistito nel nome e nel marmo tra le chiese e le conversioni, in un processo di integrazione naturale che è anche “immenso archivio” per cui il Mediterraneo è nostro padre e madre, genetica, dna, memoria persino quando nelle giornate più tristi sembrerebbe soltanto “un profondo sepolcro”. Non doveva dircelo un grande poeta anglofono, ma è bello che lo abbia ricordato, T.S. Eliot ne “La terra desolata”, che la morte per acqua di Fleba il Fenicio è spunto di meditazione per chiunque, “Gentile or Jew”.
Certe volte uno pensa, leggendo Matvejević, che abbia esagerato nel dire: “Sul Mediterraneo è stata concepita l’Europa”. Poi accade che un piccolo editore partenopeo, Langella, pubblichi per la prima volta in italiano i “Diari” dei viaggi napoletani di Hans Christian Andersen e leggendo il passaggio dedicato alla Grotta Azzurra, che l’autore danese visitò con la guida di un tedesco, ti rendi conto come proprio quel giorno gli germinò l’idea della Sirenetta, gli germinò nelle acque di Partenope, tra le onde del Mediterraneo che avevano stregato il professor La Ciura: “Che mondo di fiaba c’è là dentro…” esordisce l’appunto di Andersen un giovedì 6 marzo 1834. E allora sì lo sai e ripensi all’elenco lunghissimo (lo ha ricomposto di recente un libro-guida di una giornalista tedesca innamoratasi di Capri, Stefanie Sonnentag) degli artisti e degli intellettuali nordici che s’ispirarono o trovarono ricetto in quelle acque, rocce, insenature da dove sarebbero ripartiti conducendo un rimpianto, come Goethe, una fiaba come Andersen, e allora sì, ha ragione Matvejević, non esagera dicendo che su questo mare l’Europa, quantomeno una certa Europa, viene periodicamente concepita o riconcepita.
C’è una celebre canzone di Eugenio Bennato, “Che il Mediterraneo sia”; dove è detto bene o meglio cosa questo mare sia: “Tra la storia e la leggenda/ Del flamenco e della taranta/ E tra l’algebra e la magia/ Nella scia di quei marinai./ È quell’onda che non smette mai/ Che il Mediterraneo sia”. Noi che siamo per un destino – e confessiamolo pure, non vorremmo cambiarlo – “affacciati alle sponde dello stesso mare/ E nisciuno è pirata e nisciuno è emigrante/ Simme tutte naviganti”, anche se non abbiamo messo mai piede su una barca, noi siamo pur certi che nel buio di generazioni trascorse almeno un nostro dimenticato antenato, una nostra antenata che adesso è polvere tra sabbia e coralli, memoria dei pesci, spuma persa del mare, siamo pur certi che una volta da qualche parte navigò. Su qualche terra approdò.
Per questo il nostro mare è indomabile anche per chi se ne vive solo quello “esiguo e domestico” di città, come lo definì lo scrittore Giuseppe Marotta; anche se è solo quello dove si tuffava Raffaele La Capria da Palazzo Donn’Anna, o con i suoi “Leoni al sole” da una barca a Positano in una bella giornata estiva. A tutti, anche agli inconsapevoli, il Mediterraneo impone la consapevolezza di una condivisione universale dove nulla di quanto vi succede può essere davvero lontano. Né lo è mai stato. “Simme tutte naviganti”.
E Fleba il Fenicio è l’occulto fratello di tutti.
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