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14 marzo 2023
di Guendalina Dainelli

La Biennale di Sharjah "spinge i confini"

Bait Obaid Al Shamsi, 2018. Image courtesy of Sharjah Art Foundation
Bait Obaid Al Shamsi, 2018. Image courtesy of Sharjah Art Foundation
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Una nicchia di riflessioni raffinate, messaggi graffianti, suggestioni dirompenti. Fondata nel 1993, la Biennale di Sharjah è oggi uno degli eventi più prestigiosi dell’arte contemporanea non solo nel Golfo. Cresciuta negli anni in proporzioni e prestigio, è ormai una piattaforma internazionale riconosciuta nel dibattito intellettuale sui grandi temi dell’attualità. Dalle ingiustizie razziali e di genere, alle devastazioni dei conflitti armati, alle diaspore di popoli, fino alla decolonizzazione e alla soggettività postcoloniale.

Dalle ingiustizie razziali e di genere, alle devastazioni dei conflitti armati, alle diaspore di popoli, fino alla decolonizzazione e alla soggettività postcoloniale.

Hoor Al Qasimi, presidente e direttore della Sharjah Art Foundation, mi riceve nel giardino di bouganville di uno degli edifici del patrimonio storico di Sharjah, terza città degli Emirati Arabi per estensione dopo Dubai e Abu Dhabi, di fatto capitale culturale del Paese. Per cinque mesi, da febbraio a giugno, la città è cornice della Biennale insieme ad Al Dhaid, Al Hamriyah, Kalba e Khor Fakkan sul Golfo di Oman. Tra quartieri storici riqualificati, in cortili interni tradizionali e in moderni edifici di architettura contemporanea, la mostra è aperta gratuitamente al pubblico, animando l’atmosfera rilassata che regna sul Tropico del Cancro.

Quest’anno, le 300 opere esposte, di 150 artisti provenienti da tutte le parti del mondo, si articolano attorno al tema “Thinking Historically in the Present”, un titolo che vuole omaggiare il critico d’arte e curatore nigeriano Okwui Enzewor, primo curatore di origine africana della Biennale di Venezia, storico collaboratore della Biennale di Sharjah fino alla sua prematura scomparsa nel 2019.

“Gli sono molto grata per averci regalato questo titolo” dice Hoor commossa. Figlia dello sceicco Sultan Muhammad Al-Qasimi, sovrano appassionato di arte e cultura, ha modi semplice e informali. Accetta di raccontare la “sua” Biennale (che dirige dal 2003) sulla linea di un confronto con un archetipo importante, come quello di Venezia, l’evento fondante risalente al 1895.

“Anche Sharjah ha iniziato con una rappresentazione tradizionale, con il formato del country pavilion, ma quando sono stata coinvolta, ho capito che ci sono così tanti problemi quando parli di nazioni. Alcune persone vivono come rifugiati, ci sono matrimoni misti o etnie diverse che vivono nello stesso paese. Come si definisce una nazionalità? Questa è una delle cose che ho cambiato, ho eliminato la rappresentanza nazionale per creare una mostra più “curatoriale”.

Secondo Hoor, che è anche presidente dell’International Biennial Association (IBA), il format della biennale di Sharjah garantisce libertà e flessibilità nei temi: “Conosco la Biennale di Venezia molto bene, vado tutti gli anni, nel 2015 ho anche curato il Padiglione degli Emirati. E' difficile per loro cambiare in qualche modo, ma ci provano. Penso, ad esempio, a quando a Venezia la Germania e la Francia si sono scambiate il padiglione nel 2013 (in occasione del 50° anniversario del Trattato dell'Eliseo, che ha suggellato l'amicizia franco-tedesca, ndr). Oppure penso a John Akomfrah, britannico nero di origine ghanese che per altro siamo orgogliosi di ospitare anche noi. Con le sue opere rappresenterà la Gran Bretagna alla Biennale di Venezia nel 2024, è un messaggio importante. Ma quello che voglio dire è che le Biennali ora, almeno molte di esse in tutto il mondo, si concentrano davvero sulle città, sulle comunità e su ciò che possono fare per la gente del posto. Per le biennali tradizionali invece ci sono dei limiti legati alla diplomazia. A Sharjah possiamo presentare artisti che criticano la nazione da cui provengono. Qui abbiamo creato un hub sperimentale in cui possiamo spingere i confini.”

La visione illuminata e progressista di Hoor non può essere compresa fino in fondo senza considerare la linea tracciata dal padre

La visione illuminata e progressista di Hoor non può essere compresa fino in fondo senza considerare la linea tracciata dal padre, un dottorato in storia, alla testa della monarchia dal 1972 e ultimo monarca di una dinastia che risale al 1600. Mecenate, collezionista, ha reso l’Emirato una piccola perla di cultura, ricolma di musei, istituti culturali ed eventi artistici capaci di attirare l’attenzione internazionale, come Sharjah Book Fair, fiera del libro tra le più grandi al mondo.

“Mio padre aprì l'African Hall e la Conferenza delle Relazioni Africane e Arabe nel 1976. Quarant’anni dopo ho avviato a mia volta l'African Institute a Sharjah. Il suo primo libro "Il mito della pirateria araba nel Golfo", dimostrava come gli inglesi chiamassero "pirati" le famiglie della regione come pretesto per venire e prendere il controllo delle coste. Mio padre ha studiato molto anche l'invasione portoghese. Storicamente, tanto è stato scritto sulla nostra parte del mondo dall'esterno. Siamo tutti cresciuti con il punto di vista occidentale. Ora stiamo cercando di scrivere la nostra storia e di parlare della nostra storia dal nostro punto di vista. Sharjah è diventata una piattaforma in cui molte persone possono riunirsi in una conversazione sul Sud del mondo.”

Stupisce la forza dei messaggi e della loro rappresentazione. L'arte è una zona franca, un terreno di libertà di espressione e di denuncia, anche rispetto alla norma e al canone dominante, quello occidentale, che si vuole superare. Un fil rouge che attraversa tutte le edizioni, quasi una missione per la Biennale.

Hanni Kamaly (HeadHandEye, 2017–2018) ha presentato un cortometraggio sull'autorità coloniale mantenuta, in alcune parti dell’Africa, attraverso la mutilazione di parti del corpo e la deformazione della testa, delle mani e degli occhi degli abitanti locali.

Arriva da lontano anche la voce di Robyn Kahukiwa, una delle più importanti artiste Maori della Nuova Zelanda. Una palette di colori forti e dimensioni murali che portano in primo piano il vigore primigenio e letteralmente generativo della cultura di origine, con una scena di maternità in cui compaiono figure ancestrali, divinità, totem. All'incrocio tra arte e attivismo, la sua opera multidisciplinare è incentrata sulla denuncia dell'espropriazione di terre e identità delle popolazioni indigene.

Ha la forza di una cronaca giornalistica e al tempo stesso di una sceneggiatura teatrale l’opera di Kimathi Donkor, artista inglese di origini ghanesi che denuncia i soprusi razziali di cui si sono rese responsabili le autorità britanniche in anni recenti. “Under Fire: The Shooting of Cherry Groce”, (2005), rende protagonista il lampo della pistola esploso sullo sfondo scuro del dipinto. Ne “La morte di Clinton McCurbin", (2022), la linea create dai custodian helmet, i caratteristici cappelli dei poliziotti britannici, descrivono invece la caduta della vittima, un attimo prima della sua morte.

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