instagram
11 ottobre 2024
di Marco Patricelli 

Caleidoscopio musicale 

twitterfacebook

La nomina ad Accademico di Santa Cecilia era arrivata troppo tardi perché la sua vita si era conclusa troppo presto, a trentanove anni. Nessuno come George Gershwin aveva incarnato lo spirito dell’America e se n’erano accorti anche nella patria della musica, l’Italia, quando ancora gli ambienti accademici storcevano il naso di fronte a questo geniale self-made man capace di scrivere capolavori tutto istinto e fortissima presa sugli ascoltatori. Arturo Toscanini, un nome che incuteva rispetto ai limiti del timore nel mondo della musica, lo avrebbe sdoganato dal limbo della popolarità e del musical facendolo entrare dalla porta principale della musica colta, inserendo nel repertorio della NBC Symphony Orchestra “Rhapsody in Blue”, “An American in Paris” e “Concert in F”, in una celebre registrazione alla Carnegie Hall di New York con Earl Wild e Oscar Levant al pianoforte e Benny Goodman al clarinetto.  

Per raccontare i colori del Nuovo Mondo ci voleva un ebreo russo figlio di immigrati, innamorato della musica nera filtrata dalla sensibilità europea di un bianco cosmopolita. Il XIX secolo è ai titoli di coda quando il 26 settembre 1898 vede la luce Jacob Gershwine (con la “e”), secondogenito di Moise Gershowitz e Rosa Brushkin, giunti negli Usa per sottrarsi a uno dei tanti pogrom antisemiti nella Russia zarista e tentare la sorte nel Paese delle opportunità. Il nome diventerà Gershwin e Jacob si farà chiamare George, come già fanno confidenzialmente tutti. Diventerà un mito internazionale. Il padre cambia continuamente casa e lavoro, lui intanto si impregna di cultura americana di consumo. In strada.

 

 

Un giorno, attraverso una finestra aperta, ascolta un giovane violinista che sta eseguendo quella che scoprirà essere “Humoresque” di Antonín Dvořák. È una folgorazione. A Max Rosenzweig, destinato a una straordinaria carriera di virtuoso dell’archetto come Max Rosen, si deve la svolta nella vita di George che chiede di studiare il pianoforte. Il padre lo accontenta e si compiace di assistere al rito dell’arrivo trionfale in casa dello strumento come simbolo di ascesa sociale. Ma non può neppure immaginare che travolgente ascesa. Il figlio era già celebre quando una sera, ubriaco, prenderà un taxi e giunto a casa avrebbe scoperto di non avere danaro con sé, e allora affermerà candidamente di essere il padre di George. Il tassista l’avrebbe lasciato andare via senza pagare e lui si sarebbe inorgoglito, senza sapere che aveva pronunciato il nome del compositore in maniera storpiata e l’autista, percependo “Judge” invece di “George”, aveva lasciato cadere la cosa per non avere problemi con un giudice.  

 

 

Genio istintivo e dilettante di vaglia, il giovane Gershwin si ferma a poche lezioni di pianoforte e a tanta pratica a Tin Pan Alley, la via dove si lanciano sul mercato le canzoni e occorre qualcuno che le suoni per convincere gli acquirenti degli spartiti. Di lì a proporne una il passo è breve: titolo chilometrico e primo successo dei tanti che lastricheranno la via della gloria. La svolta quasi per caso, ovvero quando Paul Withman annuncia sui giornali un ambizioso concerto, “An experiment in modern music”, nel corso del quale verrà eseguita una composizione di jazz sinfonico di George Gershwin. Il compositore di canzoni lo apprende dai giornali e ha solo due settimane di tempo. Scrive e abbozza, passa lo spartito ancora fresco d’inchiostro a Ferde Grofé che orchestra la parte del secondo pianoforte, lascia un certo numero di battute in bianco dicendo che improvviserà perché non c’è tempo per scrivere tutto. Si raccomanda solo che l’inizio deve essere un glissando di clarinetto, senza ovviamente sapere che il clarinetto non può fare tecnicamente nessun glissando, e quando glielo dicono replica che un modo ci sarà pure, basta impegnarsi a trovarlo. E infatti viene trovato da Ross Gorman.

In sala il 12 febbraio 1924 ci sono Igor Stravinskij, Fritz Kreisler, Sergej Rachmaninov, Leopold Stokowski. “Rhapsody in Blue”, che inizialmente avrebbe dovuto chiamarsi “American Rhapsody”, è da allora la voce dell’America, dopo decenni di sudditanza psicologica e complesso di inferiorità rispetto all’Europa, di un livello più alto del jazz nato nei bordelli e di matrice afroamericana che pure era l’humus del linguaggio gershwiniano che voleva nobilitare ciò che aveva già una sua dignità stilistica. La rapsodia non rispetta i canoni della forma, tranne quelli semplici delle frasi delle canzoni, ha il respiro corto di tante idee messe una dopo l’altra e che si possono combinare persino in un ordine diverso, ma possiede la freschezza di una limpidissima quanto suggestiva vena ispirativa. Decenni dopo, nel 1979, Woody Allen ne farà la straordinaria colonna sonora del film “Manhattan”, e della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Los Angeles, nel 1984, si ricordano gli ottantaquattro pianisti che eseguivano all’unisono “Rhapsody in Blue”. Persino il promo dell’81ª edizione della Mostra del cinema di Venezia ha goduto delle suggestive note del capolavoro concepito in tutta fretta esattamente un secolo prima. D’altronde durante il Terzo Reich si raccontava che nonostante Gershwin fosse ebreo, sotto ai dischi delle opere di Richard Wagner tanto amato da Hitler i gerarchi nazisti nascondevano quello della “Rhapsody in Blue”.  

 

 

Da quel 1924 per il giovane re di Broadway sarà tutto un crescendo. Se il “Concert in F” segna la sua prima orchestrazione su una forma classica come quella del concerto (appresa acquistando un manuale in un negozio di musica e noleggiando un’intera orchestra per sentire l’effetto dal vivo), il poema sinfonico “An American in Paris”, concepito a Parigi e scritto a Vienna, è la prova di laurea superata a pieni voti. Si racconterà che Maurice Ravel avrebbe detto a Gershwin, che gliele chiedeva, di non potergli dare lezioni di composizione, perché era inutile farlo diventare un Ravel a scartamento ridotto quando invece era un Gershwin di prima qualità. Si dirà pure che ad analoga richiesta Igor Stravinskij, sempre sensibile al richiamo del danaro, ascoltato dall’americano quanto guadagnava con le sue celeberrime canzoni, abbia replicato: «Sei tu che devi dare lezioni a me». Guadagnava eccome, Gershwin, dai suoi successi che tutti suonavano, cantavano e incidevano: “Swanee”, “The Man I love”, “Oh, Lady be good!”, “I got Rhythm”, un elenco sterminato. Ma non gli basta il frusciare dei dollari che è il controcanto del successo tinto di gloria non effimera delle canzoni e dei musical. Quelli sono davvero “gli anni di Gershwin”. 

Eppure all’improvviso rinuncia a Broadway e a Hollywood, e a una barca di soldi, e con l’inseparabile fratello Ira, suo paroliere, si isola in Carolina del Sud per scrivere un’opera lirica su un libretto tutto sommato mediocre di DuBose Heyward. Sarà “Porgy and Bess”, intrisa di cultura afroamericana rivisitata con una vernice brillante di totale originalità: nessun tema viene dal canto popolare, ogni blues o spiritual o linea melodica è frutto del suo spirito creativo. Nell’America di allora c’era da scandalizzarsi del fatto che tutto, sul palco del Colonial Theatre di Boston il 30 settembre 1935, fosse nero, e non mancarono voci che svalutarono acidamente quella partitura, stigmatizzarono e irrisero l’ambizione del dilettante canzonettista che osava accostarsi a Giacomo Puccini. E poi: tutto troppo facile, troppo orecchiabile, troppo emotivo, troppo efficace. Come quel “Summertime” iniziale, destinato a essere considerato una canzone invece che una ninnananna e a venir incisa in centinaia e centinaia di versioni da tutti e in tutti gli arrangiamenti e stili musicali. Ancora oggi, da autentico evergreen. Gershwin stava già pensando a una nuova opera e aveva appena abbozzato un quartetto per archi, quando iniziò ad accusare forti mal di testa che i medici liquidarono con la diagnosi di stress e di esaurimento nervoso, raccomandando riposo. Altri sintomi, ben presto, rivelarono che si trattava di un maledetto tumore al cervello che in brevissimo tempo non gli lasciò scampo, nonostante un disperato intervento chirurgico attraverso un ponte radio possibile grazie alle apparecchiature messe a disposizione dall’esercito statunitense, perché l’unico specialista in grado di operarlo era al largo col suo yacht e non sarebbe mai tornato in tempo in ospedale. Quando morì a Los Angeles, l’11 luglio 1937, fu uno choc nazionale. La nomina ad accademico di Santa Cecilia non fece in tempo a superare l’oceano e il fiume tempestoso del destino.  

Alle sue esequie in sinagoga a New York la polizia a cavallo non riuscì a gestire l’abbraccio della folla, ci furono incidenti anche gravi. L’orazione funebre la tenne Arnold Schönberg, padre della dodecafonia, che spese parole convinte e commosse di ammirazione per un compositore che era stilisticamente agli antipodi da lui. Il loro unico punto d’incontro, oltre a un’amicizia sincera, erano le partite a tennis. Gershwin, che se la cavava bene pure con la pittura, gli aveva fatto anche un ritratto. Non sarà necessario rivalutare la musica di Gershwin, dopo la sua scomparsa ad appena 39 anni, perché non sarà mai svalutata. Agli inizi degli Anni Quaranta lo sdoganamento di Toscanini sanciva solo un dato di fatto, ma era comunque importante. Il Teatro La Fenice di Venezia rappresenterà “Porgy and Bess” il 22 settembre 1955, ben 32 anni prima del Metropolitan di New York, che lo allestirà solo nel 1987, per il cinquantesimo della morte di Gershwin. Della versione del debutto era ancora in vita John Bubbles, che aveva impersonato Sportin’ Life, lo spacciatore di droga, ruolo che Gershwin voleva non fosse affidato a un cantante professionista con la voce impostata proprio per sottolinearne i caratteri di ambiguità. Raccontò che il compositore che sedeva al pianoforte, dopo averlo ascoltato, gli disse semplicemente: «Mi farete un onore se vorrete essere il mio Sportin’ Life».  

 

 

 

Tag

Seguici su

instagram