Ottimista “di natura” e con due grandi passioni: il mare e il fare. Imprenditore, cremasco, leader degli industriali di un’Italia che sulle sue labbra diventa “trasformatrice”, è Carlo Bonomi. Siamo nella biblioteca di Borgo Egnazia, la luce è bianchissima (dicono che sia la luce più bella del mondo, quella della Puglia). Bonomi arriva spalancando un sorriso, non è guardingo, non chiede la scaletta delle domande, s’accomoda in poltrona: “Eccoci qua”. Abito scuro, camicia bianca, cravatta blu, scarpe in pelle nera. I suoi abiti sono italiani?
Bonomi sorride, apre la giacca, solleva le scarpe, gira la cravatta, quasi s’alza in piedi: “Vesto solo italiano!”
Racconto a Bonomi cosa è Mag.1861, piazzo la domanda: cosa è la bellezza?
Lui coglie la palla al volo e risponde da capitano d’industria: “La bellezza è condensata nella produzione italiana. Cioè Il saper far bene e bello. Questa è la bellezza industriale, ovviamente”. Due anni di pandemia, la guerra, eppure la barca va. “Stiamo vivendo un momento magico”. Ma potrebbe andare meglio. “Tutto il mondo vuole il prodotto italiano. È un momento che non stiamo sfruttando”. È la sua filosofia del bello, il fare e il saper fare insieme. “Per me il bello è quello che succede all’interno delle imprese italiane. Quando si parla di vita sociale, di rapporti, inviterei le persone che ne parlano, e non hanno mai fatto un giorno di vita lavorativa all’interno delle imprese, ad andare a vederle”.
Bonomi sorride, apre la giacca, solleva le scarpe, gira la cravatta, quasi s’alza in piedi: “Vesto solo italiano!”
Il mio pensiero va a Adriano Olivetti, ho seguito per tanti anni Confindustria prima di trasferirmi in America e poi tornare. Anche l’avventura di Ivrea torna?
“Noi viviamo un rapporto con i nostri collaboratori che nessuno racconta. Di loro sappiamo tutto, conosciamo tutti, le famiglie e i loro problemi. Abbiamo dipendenti che ci vengono a chiedere l’anticipo dello stipendio, del Tfr, casi umani in cui la moglie ti viene a dire di non dare al marito l’anticipo perché poi se lo gioca alle macchinette. Noi viviamo veramente come comunità all’interno delle imprese e come comunità di territorio, perché lo Stato purtroppo non ha risorse infinite, anzi sta arretrando. E quel pezzo di gestione locale del territorio la stiamo facendo noi imprese. Chi si occupa oggi della manutenzione di chiese, musei, degli incapienti del territorio, delle scuole? Ci sono scuole che non hanno la carta igienica”.
Bonomi è un fiume in piena. Qui batte anche la sua storia e quella della sua azienda.
“La mia azienda è nel distretto di Mirandola, il più importante del settore biomedicale in Europa e terzo al mondo, dopo Minneapolis e Los Angeles”. Quanti lo sanno? In pochi. Correre, camminare, fare l’impresa, con la strada spianata o in salita. “Anche perché non abbiamo l’alta velocità, non abbiamo autostrade. Durante il periodo della vendemmia sulla strada provinciale se c’è un grande trattore si rimane bloccati. Eppure noi andiamo in tutto il mondo”. Andiamo. Il plurale, non l’Io, il Noi. Bonomi è giovane (classe 1966) ma gli ultimi tre anni per qualsiasi imprenditore sono un tempo profondo, accelerato, condiviso. “Mai come oggi gli interessi dell’imprenditore e di chi lavora dentro l’impresa sono stati identici. Con la pandemia lo abbiamo riscoperto”.
La bellezza è condensata nella produzione italiana. Cioè Il saper far bene e bello. Questa è la bellezza industriale,
Oggi tutto è storytelling, fino all’abuso del termine. Bonomi solleva il caso più vicino alla sua biografia di imprenditore per dimostrare quanto le imprese abbiano bisogno di narrazione. “Scoppia la pandemia: lockdown. Ovviamente noi eravamo tra quelle imprese che fornivano dispositivi medici. Anche ai reparti di terapia intensiva. Nel nostro settore la maggioranza del personale è femminile. Quindi con mariti e figli a casa. Sono andato in azienda e ho detto a tutti: questa è la situazione. Noi produciamo prodotti che possono salvare la vita. Quindi possiamo restare aperti. Ma non voglio obbligarvi. E’ una scelta personale. Negli occhi delle persone c’era paura, come ne avevo io, non c’erano vaccini. Sono tutti venuti a lavorare, con la paura negli occhi ma sono venuti tutti. Ha prevalso il senso del dovere, del continuare la produzione necessaria al Paese. Questa è la comunità d’impresa”. Comunità. Il modello di Olivetti “è da raccontare più che da riscoprire, perché non è mai tramontato”. C’è una storia che ritorna e una che non c’è più, “C’è stato un periodo, sicuramente negli anni Settanta e Ottanta in cui ci sono stati più conflitti ma l’impresa oggi è completamente cambiata”.
Il mondo è cambiato, la globalizzazione arretra, le materie prime sono la corsa all’oro. “Oggi il mondo ci sta dicendo che dobbiamo rivedere le catene del valore aggiunto. Ci sono alcune produzioni strategiche che devono stare nel Paese. L’industria è un tema di sicurezza nazionale”. La lezione sembrava chiara, ma la politica sembra avere la memoria corta. “E’ stata chiesta all’industria una riconversione, è stata fatta in tempi velocissimi. Mentre oggi se vai a vedere le gare pubbliche di fornitura, di nuovo spiazzano il mercato. La riconversione l’abbiamo fatta nell’interesse del paese e il settore pubblico è il primo che ci spiazza di nuovo. Bisogna creare le condizioni per avere oggi, qui in Italia, alcuni tipi di produzione”.
Perché le aziende straniere comprano le italiane? Perché gli danno qualcosa che loro non possono avere. La capacità del bello che è tutta nostra
Le delocalizzazioni sono state un errore strategico? “Bisogna prima vedere cosa si intende per delocalizzazione. Perché ci sono alcune produzioni che devono essere necessariamente contigue agli stabilimenti più importanti. L’automotive è uno di questi. Molte sono delocalizzazioni fatte per necessità. Chi produce alcuni beni dove il costo del trasporto ha un’incidenza altissima, deve avere gli stabilimenti in prossimità del mercato. Quelli che hanno invece pensato di sfruttare il minor costo della manodopera in un paese per poi riportare il prodotto in Italia… hanno fatto una scelta industriale legittima, ma che io non ho mai compreso”.
L’Italia ha un rapporto particolare con la bellezza, la ritroviamo in ogni pensiero progettuale, anche come potente veicolo di innovazione. E’ il nostro marchio di fabbrica. “Noi abbiamo la capacità di sviluppare prodotti, servizi, tecnologie e di associarli al gusto che gli italiani hanno. Questo è vincente. Perché le aziende straniere comprano le italiane? Perché gli danno qualcosa che loro non possono avere. La capacità del bello che è tutta nostra”.
Il nostro patrimonio storico, artistico, culturale, il capitale umano “sono il nostro petrolio”, un giacimento immenso che non sfruttiamo. “Quando ero presidente di Assolombarda chiedevo spesso agli stranieri per quale motivo decidevano di investire in Italia e di stare in Italia. E’ perché abbiamo un capitale umano che non è secondo a nessuno. Dobbiamo valorizzarlo”.
Noi abbiamo la capacità di sviluppare prodotti, servizi, tecnologie e di associarli al gusto che gli italiani hanno. Questo è vincente.
La luce più bella del mondo. Aria, acqua, terra e fuoco, tutti gli elementi, in un equilibrio che diventa dolce vita Made in Puglia, la sfida del lusso globale che nel caso di Borgo Egnazia spunta dalla regionalizzazione.
“La struttura amministrativa dell’Italia ci porta purtroppo a fare le regionalizzazioni. I processi nazionali che abbiamo tentato sul Made in Italy non sono sempre andati in modo positivo, vediamo il turismo. Ma Borgo Egnazia è una struttura che dice cosa si può fare. Qui non c’era niente 13 anni fa. Hanno costruito una cosa magnifica che conoscono in tutto il mondo. Madonna viene qua. Si può fare, bisogna avere visione, coraggio, bisogna avere quelle caratteristiche che gli imprenditori italiani hanno, ma bisogna metterli in condizione di spenderle. E’ questo forse che a noi manca. Noi non riusciamo a costruire un campo di gioco. Poi quando siamo sul campo non ci batte nessuno. Per giocare serve lo stadio”.
Quello che gli altri sanno costruire meglio di noi, anche in Europa. “Noi siamo cittadini europei di nazionalità italiana. Da una parte dobbiamo capire il valore aggiunto che ci porta l’Europa dall’altra però come fanno gli altri paesi giocare le partite della nazionale. Noi sui dossier a Bruxelles arriviamo sempre quando sono chiusi. Credo che gli altri paesi pur nella loro differenza delle rappresentanze politiche prima giocano un sistema di paese e poi un sistema identitario di partito”. Per vincere bisogna giocare un’altra partita. “Sfruttare il valore aggiunto dell’Europa e capire quali siano i nostri interessi nazionali, interesse strategico del paese non è una brutta parola”.
Gli industriali ci provano. “Ci provano sempre. Sono ottimisti per natura altrimenti non farebbero questo mestiere”. Ci provano. E ci riescono. L’Italia bella, un Bel Paese.
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