instagram
15 marzo 2025
di Lidia Lombardi

Il Giappone è vicino con gli Shinhanga

twitterfacebook

Lei ha la frangetta, i capelli non superano le spalle, sciolti, piegati in sotto, quasi un caschetto. È nuda, il corpo d’una rotondità concreta, carnale. Accovacciata, si asciuga una caviglia. Lo sguardo obliquo, puntato su chissà quale pensiero. La giovane donna è ritratta ne “Al bagno” di Ishikawa Toraji, un’opera che è la perfetta equazione di quella che viene chiamata la “rivoluzione nelle stampe giapponesi”: ovvero il rinnovamento dell’antica arte dell’incisione su legno chiamato  Shinhanga  – letteralmente nuova xilografia - che esplose a partire dal 1916, mentre l’Europa era dilaniata dalla Grande Guerra: prosperò oltre la metà del XX secolo ed ebbe un cospicuo e fertilissimo mercato ben al di là dei confini del Sol Levante.

Con 120 opere esposte, di questo dà amabilmente conto la mostra “Gli Shinhanga” allestita fino al 15 giugno nella suggestiva cornice dei Musei di San Salvatore in Lauro, nel complesso rinascimentale del Pio Sodalizio dei Piceni, la piazza romana che si spalanca come un palcoscenico tra via dei Coronari e il Lungotevere. E’ una rassegna che racconta di una civiltà lontana e della sua storia. Shinangha coincide con l’apertura reale del Giappone all’Occidente, dopo i duecentocinquanta  anni del periodo Edo (così la capitale, che poi divenne Tokyo e che si era sostituita a Kyoto), allorché un governo militare assicurò pace e benessere borghese al Giappone ma lo isolò come in un bozzolo dal resto del mondo. Durante l’epoca Edo l’arte della xilografia si chiamava Ukiyoe, “mondo fluttuante”, a dire di quella sorta di “carpe diem” edonistico che aveva avvinto il popolo dagli occhi a mandorla. Un incessante anelito alla raffinatezza. Lo scorso anno la poetica del “mondo fluttuante” ha tenuto banco in un’esposizione a Palazzo Braschi, capace di restituire il senso di quel periodo e della civiltà remota per l’Occidente.

 

 

 Shinhanga cambia la prospettiva, mette al centro le metropoli, il mondo, personaggi  comuni, colti nella loro quotidianità. Ma non dimentica la tradizione, da quelle radici sa prendere la cura formale, l’amore per la Natura, per la Bellezza. Però i suoi maestri (Ito Shinsui, Kawasake Hasui, Hashiguchi Goyo, presenti con molti comprimari nella mostra romana curata da Paola Scrolavezza , tra le massime nipponiste in Italia, con Fusako Yoshinaga) percepiscono l’incresparsi dei tempi, la loro incertezza derivata appunto dalla “navigazione” nel mare aperto del mondo, che si è sostituita a quella senza scossoni, a parte un po’ d’ironia, dell’Ukiyoe. Quel milieu va superato, comunque con molta nostalgia. Ecco allora i paesaggi rurali meno celebrati, i campi arati, i laghi, i corsi d’acqua: non più l’onnipresente mole del monte Fuji, nemmeno la meraviglia vitalistica della “Grande Onda”, l’opera più iconica del Giappone “fluttuante”, che porta la firma di Hokusai e data la prima apparizione al 1830. Shinhanga invece frastaglia i contorni delle sue vedute, dei templi, dei personaggi.

Il paesaggio, anche quello urbano, è reso attraverso un velo: di nebbia, di pioggia, di neve, di riflessi nell’acqua di alberi o case. I colori sfumano nel grigio, nel cilestrino, nell’argento sfocato della luna. La nostalgia ha come oggetto la primavera, l’autunno, la neve invernale. La resa è impressionistica, a guidare le emozioni e i ricordi di ciascuno. I ciliegi in fiore sono colti come attraverso un grandangolo che ingrandisce i petali, tra essi si intrufola, imprigionato  da una sorta di inebriante ragnatela bianca. Anche loro, con la delicatezza dei petali, significano precarietà esistenziale. Vibrazioni della visione, echi di impressionismo (“Primavera alle terme” di Yoshida Hiroshi, del 1940), perfino di “pointillisme” (“Tempesta di neve”di Kawase Hasui).

E poi, il viaggio in Occidente, le città a Ovest. Le brume dettano la tavolozza, i soggetti sono più sognati che riprodotti realisticamente: così l’Abbazia di Westminster a Londra, la laguna di Venezia, l’Acropoli di Atene, l’Egitto con “La Sfinge di notte”, l’Afghanistan con la “Carovana nella sera”, opere firmate da Yoshida Hiroshi, provenienti dalla Japanese Gallery Kensintgtion, l’istituzione che ha prestato la maggior parte delle opere in mostra, accuratamente riprodotte insieme a una serie di saggi nel catalogo edito da Il Cigno. Il processo di modernizzazione è accelerato dalla catastrofe del 1923, il più forte terremoto subito dal Giappone, che rade al suolo nei centri urbani le abitazioni perlopiù in legno, tutte così ricostruite. Fa centomila morti, quel sisma, e soprattutto sono donne, intralciate nella fuga dal kimono e dalle calzature con la suola alta.

Shinhanga assorbe le atmosfere e le mode della ricostruzione. Anche il dibattito sulle capigliature femminili, che già datava da un po’. Un editto del 1873 vietava alle donne di tagliarsi i capelli. Invece l’altra metà del cielo disobbedisce sempre più frequentemente: appunto la donna con la frangetta de “Il bagno” è l’esempio eclatante. Ma poi c’è quella che scioglie la chioma e la pettina, pronta a non raccoglierla più nel tipico chignon bombato sulla nuca, sulla fronte, sulle tempie. La “Donna che si pettina i capelli” di Hashiguchi Goyo ha una triste grazia. Le fanno corona altri ritratti, i bijnga (belle donne, appunto): non più personaggi irraggiungibili, raffigurati in gruppo. Ora sono sole al centro del quadro, in primo piano, raffigurate in gesti spontanei: davanti allo specchio della toletta un po’ disordinata (“Kimono estivo con iris” di Torii Kotondo, 1930), con in bocca la larga manica del kimono, per non bagnarla mentre strizzano piccolo telo, oppure per piccolo tic nervoso. Addirittura, se ne stanno in maglietta a mollo nell’acqua con la loro bambina, mentre il bagnasciuga si popola di altri gitanti (“Bagni di mare” di Miyagawa Shuntei, 1897, collezione privata).

Una sezione della mostra è dedicata alla grande tradizione del teatro Kabuki. Prosegue l’interdizione del palcoscenico alle donne, sicché sono attori a sostenere i ruoli femminili. Tuttavia si impone anche qui un solo personaggio, in primo piano, intenso, assertivo, e non è sono per l’effetto del trucco, come nell’attore che impersona  madama Sayuri di Natori Shunsen. Filmati, fotografie, oggetti contribuiscono a narrare il Giappone degli shinhanga, poco conosciuto in Italia, proprio nell’anno dell’Expo di Osaka e del Giubileo. Insieme con eventi collaterali, laboratori per bambini, conferenze, sempre nella sede di San Salvatore in Lauro. Tra le altre, sabato 22 marzo alle 16, “La ragazza che amava Miyazaki” con Silvia Casini e domenica 6 aprile alla 16 “Incontro con il sake” con Kana Cappelli.

 

 

 

 

Tag

Seguici su

instagram