Si fa presto a dire che un film è un buon film. Oltre alla potenza di una sceneggiatura, oltre alla bravura degli attori e agli effetti speciali, per la riuscita di una pellicola molto si deve al lavoro discreto quanto indispensabile del makeup designer. Un’arte quella del trucco e parrucco di grande tradizione in Italia, invidiata e richiestissima sui set delle grandi produzioni internazionali. Non è un caso che sia proprio italiano uno dei talenti più richiesti dai registi americani.
Schivo quanto entusiasta del suo lavoro lo abbiamo visto ed applaudito nel 2017 a Los Angeles, sul palco degli Oscar quando si è aggiudicato l’ambitissimo riconoscimento dell’Academy Award firmando il trucco di “Suicide Squad”. Lui è Alessandro Bertolazzi e dopo aver avviato la sua carriera in Italia, lavorando tra gli altri per Dario Argento, Giuseppe Tornatore e Franco Zeffirelli, ha iniziato a muoversi all’estero e, prima in Europa e poi negli Stati Uniti, ha sedotto registi come Ron Howard (“Angels & Demon”), Inarritu (“Babel”), John Irving e Tom Tykwer.
È stata la sua mano, capace di ridisegnare i tratti di Jared Leto e Cara Delevingne, supercattivi del film scritto e diretto da David Ayer, ad esaltare la Monica Bellucci di “Malena” e ad invecchiare il volto di Penelope Cruz in “Venuto al mondo”. Ha reso quasi irriconoscibile Leonardo DiCaprio che interpreta il direttore dell’FBI Hoover in “J. Edgar” e, nella stessa pellicola, ha nobilitato i tratti di Naomi Watts in versione anziana. Ha osato, contro il parere di molti, nel volere per Javier Bardem, cattivo in “Skyfall”, una chioma biondo platino, rimasta poi memorabile. «Il merito non è solo mio – ci dice quando lo sentiamo a Firenze dove si trova in un momento di pausa forzata a causa dello sciopero indetto dalla Sag-Aftra che dal 14 luglio coinvolge anche la produzione del film “How To train your Dragon” prodotto dalla Universal Picture a cui sta lavorando – quando si fa questo lavoro si entra in contatto diretto con l’attore ed è come un’alchimia anche il risultato che ne deriva».
Sì, ma lei ha vinto un Oscar. Il riconoscimento che nel cinema tutti vorrebbero conquistare. Ci racconta com'è andata?
«Essendo sempre stato abituato a lavorare e a migliorarmi, quando ho ricevuto la nomination, seppur felicissimo, ho anche realisticamente creduto di non poter vincere. Così quando aprendo la fatidica busta hanno detto il mio nome è stata un’emozione incredibile. Stringi tra le mani questa statuetta, hai negli occhi le immagini di divi come Audrey Hepburn e sai che stai rappresentando la tua categoria e poi sai anche che sei italiano e che è davvero difficile essere in quel posto, così lontano da casa, capisci che è un momento davvero unico. Ancora oggi quando passo davanti alla libreria dove l’ho messo, lo guardo quasi catturato da una forza magnetica e un po’ per la sindrome dell’impostore penso che qualcuno venga prima poi a riprenderselo. Ricevere questo riconoscimento è anche una sfida per il lavoro futuro e per certi aspetti un aiuto perché molti registi sono quasi in ossequio verso l’Oscar e non hanno il coraggio di contraddire le mie scelte e questo un po’ mi spiace perché il confronto mi piace».
Oggi vive tanto all’estero ma quanto c’è dell’Italia nel suo quotidiano?
«Mi sento italiano soprattutto quando sono all’estero. Con me da qualche tempo porto una bandiera tricolore che metto su un’asta davanti al camper quando si gira. Ho iniziato con questa pratica perché durante il lavoro nella produzione del film “Fury”, Brad Pitt aveva messo quella americana. Così la metto in valigia e quando arrivo sul set mi faccio dare un palo e la isso. So cosa significa stare fuori dal proprio Paese, per questo quando ho vinto l’Oscar l’ho voluto dedicare a tutti gli immigrati. “Sono un immigrato, vengo dall’Italia e lavoro in giro per il mondo. Questo premio è per tutti gli immigrati”. Una dichiarazione che commosse molti in sala, da Nicole Kidman a Meryl Streep, e che poi ha creato tanto affetto e riconoscimento da parte delle persone che ho incontrato nel mio viaggio di ritorno».
Ovvero?
«Viaggiare con una statuetta Oscar è una vera e propria avventura nell’avventura. Quando l’Oscar riposto nel bagaglio a mano passava al controllo mi fermavano dicendo di far vedere il contenuto e quando scoprivano che c’era un Oscar vero era una festa. Chi voleva toccarlo, chi si emozionava, chi voleva una foto. Questo aspetto della condivisione è quello che più mi è piaciuto e che più mi caratterizza perché c’è da dire anche che ricevere un premio così crea anche tanta invidia e allontana anche persone».
Qual è l’ultimo film a cui ha lavorato prima dello sciopero?
«Tra gli ultimi lavori mi sono appassionato alla produzione per la Apple della miniserie “Franklin”, dove il padre fondatore degli Stati Uniti è interpretato da Michael Douglas, davvero una persona squisita con cui lavorare. Un film storico in una Parigi del Settecento che è un periodo in cui tante volte mi sono calato per lavoro. È la storia di come un ormai anziano Franklin convinse la monarchia assoluta francese a sostenere il piccolo esperimento americano di democrazia».
Che tipo di trucco ha realizzato?
«Ho fatto un esperimento, che sembra riuscito, ho voluto usare un unico colore di fondotinta per tutti, attori e comparse e un unico tipo di rosso per le gote, non ho poi truccato gli occhi perché a quei tempi gli occhi non si truccavano. Una cosa semplice che ha creato un effetto incredibile perché ha dato un’organicità di massa. Come capita anche nel mio lavoro non si inventa nulla ma ci sono sempre dei corsi e dei ricorsi e delle citazioni che arrivano dalla moda e da altre epoche. Picasso diceva che un bravo artista è quello che riesce a copiare e non ad imitare, ecco anche io cerco di procedere così. Penso ad esempio ad un attore di questo film per cui ho studiato un’acconciatura che è molto simile a quelle di Prince in “Purple Rain”. Io poi amo molto l’arte, in particolare Caravaggio per la capacità di raccontare una realtà nuda. In un periodo storico in cui i Santi erano angeli, nel “San Matteo e l’angelo” rappresenta il Santo a piedi nudi e sporchi. Ma amo anche Egon Schiele, Otto Dix e Francis Bacon, allo stesso tempo prediligo i film storici che mi stimolano a studiare e a documentarmi e il periodo che più mi ispira è il medioevo. Un’epoca che torna anche nelle pellicole sospese dal tempo dei film fantastici. Qui ho un grande spazio di lavoro perché è davvero ampio il margine di fantasia».
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