Prendete un qualsiasi posto nel mondo: se non c’è un italiano, è comunque sicuro che qualcuno c’è stato. Ennio Flaiano, con uno dei suoi fulminanti aforismi, aveva colto nel segno nel descrivere l’innata propensione degli italiani a viaggiare. Insomma, «Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori», come ricorda pomposamente l’iscrizione, ipercitata col suo carico retorico, sulla facciata di Palazzo della Civiltà all’Eur di Roma.
Erranti e non sempre cavalieri, girovaghi e quasi mai guitti, hanno inseguito la “conoscenza” e non di rado vi hanno aggiunto la dantesca “virtute”. Insomma, se Ulisse volle superare le Colonne d’Ercole andando oltre Finisterre (Finis terrae), gli italiani hanno percorso il globo in lungo e in largo, hanno tracciato nuove rotte, si sono mossi di qua e di là, hanno portato e trapiantato le loro virtù e i loro vizi, perché più che un popolo, stando sempre a Flaiano, sono una collezione. E per questo sfuggenti a ogni classificazione rigida, che spesso diventa un’etichetta nazionale: da un tedesco non ti aspetti la fantasia, né da un gentleman inglese la sguaiatezza, mentre dall’italiano puoi aspettarti di tutto.
Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigratori
Poeti, artisti, eroi, ne hanno tutti, ma sicuramente sono molti meno di quelli nati nella Penisola, dove anche le grandi imprese, quelle epocali che hanno fatto la storia, sono più frutto dell’avventura e dell’inventiva che di una ferrea pianificazione a tavolino. Cristoforo Colombo scoprì l’America nel 1492 alla ricerca della via delle Indie, inseguendo lo slancio ideale a viaggiare oltre il noto e oltre i limiti. Il veneziano Marco Polo aveva già da tempo raggiunto la misteriosa Cina, aprendo la via della fortuna della Serenissima che sarebbe stata penalizzata nei suoi monopoli proprio dalla scoperta dell’America.
Si dice oggi con ironia che quando Colombo salpò da Palos non sapeva dove stesse andando, quando arrivò non sapeva dove si trovasse e quando tornò non sapeva dove fosse stato; qualcuno aggiunge malignamente che a ogni modo il navigatore genovese era sicuro di una cosa: il viaggio non l’aveva mica pagato lui, bensì i reali spagnoli Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia. E comunque lo sgarbo della storia sarà che il continente la cui esistenza lui aveva rivelato al mondo, porta invece il nome del “collega” fiorentino Amerigo Vespucci.
E oggi persino il Columbus Day che lo celebra negli Stati Uniti deve guardarsi dall’isterismo schizofrenico del woke, che come tutte le mode, anche di pensiero, è destinata a scomparire. Il Rinascimento ha fatto viaggiare nel mondo l’italianità maestra di stile e di gusto, senza eccezione geografica alcuna, nel Nuovo e nel Vecchio mondo, come oggi la moda italiana detta legge dappertutto, viaggia ai quattro punti cardinali con la forza dirompente della creatività. Il design è una cifra inconfondibile, dalle automobili all’oggettistica, persino nelle esagerazioni. E lascia il segno.
Così come lo lasciarono nelle linee e nelle pietre gli architetti Francesco Bartolomeo Rastrelli (nato a Parigi), il napoletano Carlo Domenico Rossi (che assunse nome e patronimico russi, Karl Ivanovič), il bergamasco Giacomo Quarenghi, e anche il ticinese Domenico Trezzini che nel XVIII secolo disegnarono Pietroburgo su incarico della corte imperiale russa, realizzando una delle città architettonicamente più armoniose per i suoi equilibri e affascinanti per la posizione, attraversata dalla Neva e affacciata sul Baltico, ponte verso l’Europa e l’occidente. È la capitale dell’impero dei Romanov, dove nel 1862 Giuseppe Verdi viene invitato a far debuttare “La forza del destino”, perché se volevi essere universale dovevi parlare la lingua universale della musica e quindi l’italiano del melodramma; e infatti a Verdi l’aveva commissionata il Teatro imperiale, sede dell’opera italiana.
Un viaggio verso la Russia all’epoca interminabile per celebrare uno dei simboli dell’italianità, ma che non era nulla rispetto a quello che era stato sistematicamente compiuto a partire dal 1500 con i carri, tra mille accortezze, dalle falde del Gran Sasso alla lontana Russia per portare le preziose maioliche e ceramiche di Castelli che abbellivano la corte degli zar e che oggi sono tra i pezzi pregiati della collezione del Museo Ermitage.
Un’altra capitale lontana dallo Stivale doveva la sua bellezza all’arte italiana, e persino la rinascita dalle sue ceneri: Varsavia. Rasa al suolo dai nazisti per punirla dell’eroica rivolta dell’agosto del 1944, quando venne avviata la ricostruzione ci si avvalse di due elementi per rivederla architettonicamente com’era e dov’era: le fotografie, però all’epoca in bianco e nero, e i quadri sopravvissuti alla furia bellica, che per fortuna erano a colori. Le vedute d’insieme e le tinte degli edifici e dei quartieri storici, i dettagli più raffinati e impensabili, sono tornati a rivivere grazie al pittore Bernardo Bellotto che i polacchi chiamavano Canaletto come Giovanni Antonio Canal, suo zio da parte di madre di cui era stato allievo. Ancora oggi a Canaletto è dedicata una sala del Castello reale dove sono conservate le opere risparmiate dalla guerra.
È proprio vero che nel mondo gli italiani o ci sono o ci sono stati. Il poeta Ugo Foscolo nacque a Zante (Zacinto), nella Grecia che ha dato i natali anche a Matilde Serao (Patrasso); Giuseppe Ungaretti ha visto la luce ad Alessandria d’Egitto e uno dei padri della lingua italiana, Niccolò Tommaseo, nella Sebenico sulla parte orientale dell’Adriatico. Negli Stati Uniti, dall’emigrazione partita dal basso che ha creato un’altra popolazione italiana all’estero, sono nati John Fante di “Chiedi alla polvere”, Pascal D’Angelo definito “il Verga degli emigranti”, Pietro Di Donato autore di “Cristo tra i muratori”.
Dire che l’italiano si sente sempre a casa è inesatto; si sente fuori casa anche a casa sua. Trova che tutto attorno a lui è inferiore a quello che lui pensa di se stesso. Tutto questo non si può guardare senza simpatia, perché è il frutto di uno stato d’animo che forma in fondo l’ambivalenza dello straniero verso l’italiano e l’Italia: questo desiderio di amarlo e nello stesso tempo di detestarlo
Ennio Flaiano, che aveva viaggiato per la prima volta da bambino in treno per andare in collegio, e poi con le stellette di tenente di complemento via nave per la Campagna d’Etiopia del 1935-1936, si interrogò sul modo di viaggiare degli italiani, che dal Polo Nord all’Africa non riescono a prendere nulla sul serio e continuano a essere quello che sono a casa loro: «La savana, la giungla, i grandi spazi dell’Africa: due italiani bastano a corromperli. ‘Dottore’, ‘Ragioniere!’. Non rinunziano ai loro titoli, guardano i grandi spazi, vi si perdono, li percorrono senza convinzione, dubbiosamente. ‘Con lei in Africa non ci vengo più’ eccetera. Quando due italiani si incontrano per caso all’estero, la loro prima reazione è un gran ridere: ‘Che ci fai tu qui?’, ‘E tu?’. Infatti si suppone che se sono fuori casa è per motivi essenzialmente comici: il lavoro, la noia, una curiosità piena di riserve, le donne, i piaceri eccetera». E aveva aggiunto che essendo nati in mezzo al Mediterraneo gli italiani si sentono figli unici, inimitabili, e a essere strano è il resto del mondo, ed è assurdo che sia stato fatto.
«Quando l’italiano va al Polo Nord trova che c’è troppo ghiaccio, quando va in Africa trova che c’è troppa sabbia. Non si potrebbe rimediare in qualche modo? Non si potrebbe togliere un po’ di sabbia? Non si potrebbe togliere un po’ di ghiaccio? E trova che i neri sono troppo neri e i cinesi troppo cinesi. Questo lo porta a considerare il resto del mondo come provvisorio e in fondo un po’ ridicolo».
E concludeva da par suo: «Dire che l’italiano si sente sempre a casa è inesatto; si sente fuori casa anche a casa sua. Trova che tutto attorno a lui è inferiore a quello che lui pensa di se stesso. Tutto questo non si può guardare senza simpatia, perché è il frutto di uno stato d’animo che forma in fondo l’ambivalenza dello straniero verso l’italiano e l’Italia: questo desiderio di amarlo e nello stesso tempo di detestarlo».
Eh già, proprio «Questo popolo di santi, di poeti, di navigatori, di nipoti e di cognati».
6 marzo 2025
5 marzo 2025