“Mio nonno Pablo Picasso coniugò la sua figura di artista con quella del toro, vittima nella corrida. Un’associazione che fece a Roma, dove arrivò nel 1917, dopo aver visto il Colosseo. Ne restò colpito, le fiere preda dei gladiatori erano come i tori nella corrida. Il loro sangue era quello di una vittima, un’offerta sacrificale. Al pari dell’artista, del suo essere artista”.
Così Jasmin Blasco, figlio di Claude Picasso (Blasco è il cognome del padre di Pablo, ma egli scelse di firmarsi con quello della madre, Maria Picasso) all’inaugurazione della mostra “Picasso lo straniero” aperta da oggi al pubblico a Palazzo Cipolla, Roma (via del Corso 320, fino al 29 giugno, organizzata da Fondazione Roma con Marsilio arte).
Una testimonianza vibrante, così come l’impianto dell’esposizione, che tra le cento didascalie propone sì dipinti, ceramiche, disegni di colui che rivoluzionò l’arte del Novecento, ma anche video e documenti. I quali sono stati scovati negli archivi e sostengono il filo conduttore scelto dalla curatrice, Annie Cohen-Solal: ovvero che il maestro del Cubismo, il nome più in vista nel panorama artistico della Francia del XX secolo, sia stato sempre percepito da Parigi come uno straniero, un estraneo, un immigrato. Del quale diffidare. Tanto è vero che Picasso – giunto per la prima volta sul suolo del Re Sole nel 1901, diciannovenne, e stabilitosi là dal 1904 fino all’anno della morte, 1973 – non ha mai avuto la cittadinanza francese.
Appunto attorno a questo paradossale vulnus si snoda la narrazione della mostra, che ha già avuto due tappe in Italia, a Milano e a Mantova, oltre ed essere stata proposta per la prima volta a Parigi, non a caso nel Musée National de l’histoire de l’immigration. Narrazione, appunto. Della fatica di vivere di Picasso, da lui trasformata in impulso a vivere con maggior pienezza, facendo di tutta la sua esistenza una provocazione, una strategia, una comunicazione, una rappresentazione “una performance teatrale, al pari di quella del potere”, osserva ancora Jasmin Blasco.
Si entra subito in medias res: ecco il quadro con il quale Picasso si ritrae insieme con un po’ di catalani sbarcati a Marsiglia: alieni, others, e lui che si copre il volto con una sciarpa per sottrarre i suoi lineamenti allo sguardo della polizia. Tutto inutile. Un rapporto del 1901 stilato da un commissario sulla base delle parole di una portinaia (“Esce e rincasa a ore irregolari, la sera esce con Manach”, il mercante catalano che lo ospita, “e torna a tarda ora, parla malissimo il francese e si fa capire a malapena”) gli resterà appiccicato addosso come un marchio per tutta la vita. Abita a Montmartre, la ronda degli spioni piedipiatti riferisce che è un “anarchico” come colui che gli dà un tetto. Sulla sua richiesta di carta d’identità, molti anni più tardi, è stampigliato a lettere cubitali “SPAGNOLO”, in una successiva richiesta campeggiano le impronte digitali.
E allorché nel 1940 Picasso, per schivare i pericoli che potrebbero derivargli dai nazisti, chiede la cittadinanza francese (tre anni prima, nel 1937, aveva dipinto “Guernica”, il più visionario atto d’accusa al franchismo), il funzionario di turno, seguace di Petain, gliela nega, motivando: “Questo pittore sedicente moderno che ha guadagnato milioni (investiti, pare, all’estero) non ha prestato servizio militare nel nostro Paese durante il conflitto, ma ha continuato a coltivare idee estremiste pur orientandosi verso il comunismo. Questo straniero deve essere ritenuto sospetto a livello nazionale”.
Altri ceffoni aveva ricevuto negli anni precedenti. Nel 1914 settecento tra i suoi più bei dipinti cubisti vengono confiscati e poi venduti all’asta. Picasso vive l’accaduto come una mutilazione. Lo aiuta la sua attività in altri campi, disegno, incisione, scultura, vignettismo politico. E scenografia a teatro. La rassegna al Museo del Corso dà ulteriore spazio al suo soggiorno romano per la messinscena di “Parade” su musica di Satie, con Cocteau e i Balletti Russi di Djagilev. Il grande cavallo di stoffa che nella esile trama surrealista si esibisce sui boulevard di Parigi insieme con artisti di strada campeggia in una sala, corredato anche dal video del Teatro dell’Opera di Roma (la prima al teatro Chatelet di Parigi fu fischiata, solo Apollinaire, reduce di guerra, riuscì a placare gli spettatori inferociti) e dalle fotografie del viaggio a Napoli.
“Picasso appartiene a Roma – dice Anne Cohen-Solal – in via Margutta, dove alloggiò ed ebbe lo studio, una targa in marmo lo ricorda. Dalle finestre poteva vedere Villa Medici, ritratta in un dipinto qui esposto”, un’opera solare, come forse il suo stato d’animo lontano dalla Ville Lumière. Un arricchimento dell’attuale tappa espositiva al quale si aggiungono due dipinti inediti: “Bosco su un versante montano” , del 1899, proveniente dal Museo Picasso di Barcellona (l’altro prestatore principale è il Museo Picasso di Parigi, cui si affianca quello di Antibes) e “Al ristorante”, 1900, da collezione privata, nel quale il pittore appena approdato in Francia ritrae il rito mondano e luccicante del déjeuner fuori casa che il Paese cosmopolita praticava d’abitudine.
Presto sarebbe esplosa la bomba della scomposizione cubista dello spazio (Les Demoiselles d’Avignon data al 1906) seguita all’altrettanto centrifuga scelta di soggetti ai margini della società – saltimbanchi, zingari, umili, stralunati. Ma se lo spagnolo sarà osannato negli Stati Uniti (“Attualmente Picasso è l’idolo dei collezionisti d’arte moderna”, scrive il New York Times nel 1930) e i suoi quadri tengono campo al MoMA, ancora la Francia lo ignora, addirittura rifiutando il dono al Louvre delle “Ragazze di via Avignone” che finisce negli States. La strategia della denuncia indiretta diventa per lui prassi: il soggetto del minotauro è il suo alter ego, mostro e vittima; di più, scolpisce per la città di Vallauris “L’uomo con la pecora” (esposto a Roma il disegno preparatorio), una figura esile che regge il piccolo animale smarrito. E’ la risposta ai nudi altisonanti di Arno Breker, l’artista preferito da Hitler, messi in mostra nel 1942 al Museo dell’Orangerie.
Anche l’approdo alla ceramica è un modo per distinguersi dal mainstream dell’arte.
Nel sud della Francia, dove andrà a vivere, apprende le “undici maniere tradizionali” per cuocere e smaltare l’argilla. Riprende i modi cubisti, ritrae paesaggi mediterranei squillanti di colori ma mai banalmente descrittivi, raffigura gufi, pesci, ricci di mare, triglie, murene. E’ l’estate del ’46, ora Picasso lavora in un ampio studio che gli ha messo a disposizione il sovrintendente del Castello Grimaldi di Antibes. La Francia lo ha finalmente accettato, ma è lui a non accettare, negli anni Cinquanta, la cittadinanza tanto a lungo negata, allorché il suo “Kubismo” era accusato di guastare il gusto francese.
Per la curatrice il quadro simbolo di “Picasso lo straniero” è un’opera poco conosciuta dipinta quando aveva ottantotto anni. Si intitola “Adolescent”, raffigura un ragazzo che ha sulla fronte una corona d’alloro, la collana, la gorgiera, memore dei personaggi di Velazquez, sui quali da giovane l’andaluso si era esercitato con maestria. Ma gli occhi sono asimmetrici, il naso è deformato, i piedi in primo piano smisurati. L’anziano pittore coniuga classicismo e cubismo. Guarda indietro tutta la sua vita e nulla rinnega.
5 marzo 2025
28 febbraio 2025