Roma non è una città, è una metafora della condizione umana che ha saputo farsi casa di sentimenti ed emozioni dissonanti. Da quando Pietro venne a Roma a negare gli dei e a trovare il martirio, la comunità che si dice eterna ha saputo fare propria anche quella che sembrava una trascurabile eresia dell’Ebraismo, dandole forma e figura.
E nel nostro presente il Giubileo è un rintocco sonoro del grande orologio che regola il tempo di Roma, che si è fatto incalzante e affannoso nel secolo breve, così venne chiamato il Novecento; la centuria che accolse tra le arti l’invenzione del cinematografo, tornato con la pace nella sua casa romana fuori le mura.
Roma portava ancora le cicatrici della guerra quando Pio XII proclamò il Giubileo di metà secolo, nell’anno 1950. Che cosa raccontava il cinema di quella stagione, mentre i pellegrini arrivavano in cerca di indulgenza? Si possono contrapporre due lavori accomunati soltanto dall’ambientazione cittadina, arrivati allora nelle sale.
“Domenica d’agosto” di Luciano Emmer racconta una Roma trasfigurata dalla calura estiva, non ancora flagellata dall’eccesso di turismo cannibale. La città è solo un punto di partenza per il mare di Ostia. Anche la stessa storia narrata, un incerto intrecciarsi di vicende personali tra canone neorealista e commedia di costume, è un punto: di arrivo per alcuni attori destinati ad avere in questa apparizione il solo elemento di contatto con il mondo del cinema; di partenza per un giovanissimo Marcello Mastroianni, al debutto in una carriera che lo avrebbe portato tra le stelle, qui malinconicamente doppiato da un collega destinato a fare strada, un certo Alberto Sordi. È un presepio estivo di umanità, di persone senza qualità che azzardano segnali di vita tra attese e speranze, dove il materiale prevale sull’immaginario e il senso del sacro cede alla timidezza arrogante del profano.
Fa quasi tenerezza, al contrasto, un altro film uscito in quell’anno giubilare, opera prima e ultima di Giuseppe Accatino, anticipatrice forse del flaianesco “marziano”, che qui addirittura è Buffalo Bill, l’eroe della frontiera americana giunto in tarda età a trascinare il suo sfilacciato mito nelle arene della vecchia Europa. “Buffalo Bill a Roma” tenta di coniugare l’epica con la commedia, secondo un canovaccio improbabile, prevedibilmente martoriato dalla critica, destinato ad articolarsi dalla città a quella Maremma dove imperversavano i butteri, per dissonante coerenza i cow boys nostrani. La trama vorrebbe raccontare di passioni e di lacerazioni, ma risulta soltanto un contrasto di controfigure, dove la distanza è il canone di personaggi sconfitti da se stessi, piuttosto che dagli avversari di giornata. Qui l’America, che proprio Sordi si apprestava a parodiare, diventa caricatura sulle soglie del grottesco, senza salvazione possibile.
Venticinque anni dopo quel 1950, Roma è sempre la stessa anche se è cambiata in tutto. L’euforia del dopoguerra ha lasciato spazio alle illusioni della crescita industriale e del consumismo e la città, come il resto d’Italia, è percorsa dalle tensioni sociali e politiche e dalle prime avvisaglie della violenza terroristica. Il 1975 del Giubileo di Paolo VI vede nelle sale tre lavori girati a Roma e il più importante, una delle pellicole fondamentali della storia d’Italia, ha debuttato a ridosso del Natale precedente, tutto girato fra Piazza del Popolo, la fontana di Trevi, le trattorie di Trastevere, il fiume che scorre tranquillo, le vie di una città che è la vera protagonista. Mezzo secolo dopo scintilla ancora “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola, magnifica elegia sull’amicizia e sul tempo, uno splendido lavoro corale scritto da Age e Scarpelli che è un messaggio d’addio a Vittorio De Sica e una prova di grazia attoriale di Nino Manfredi, Vittorio Gassman e Stefano Satta Flores attorno a Stefania Sandrelli, con Mike Bongiorno, Federico Fellini e ancora Marcello Mastroianni a interpretare se stessi. L’amore, la disillusione, la tenerezza, la nostalgia: “Il futuro è passato e non ce ne siamo accorti, volevamo cambiare il mondo e il mondo ha cambiato noi”.
Dall’Appia Antica, dove circolarmente comincia e finisce il film che doveva intitolarsi “La sconfitta”, ai viadotti che soffocano Termini e al palazzo oggi della Regione Lazio. Sarebbe stata Genova, è diventata Roma per bieche ragioni produttive la prima pietra della saga di “Fantozzi”, affidata alla vita agra di Luciano Salce. La Roma della megaditta non è quella dei pellegrini che arrivano per il Giubileo, ma quella impersonale di non luoghi metafisici, esasperati oltre la soglia del grottesco, estranei a ogni visione trascendente, dove anche la religione è caricatura se non superstizione.
C’è di peggio, in quel 1975; e il peggio è quanto affiora dalla raffigurazione esasperata di una Roma ostaggio del crimine, secondo un cliché che già allora vedeva i cittadini, così come gli uomini delle forze dell’ordine tentati dal farsi giustizia da soli. La legge dei tribunali è scomparsa a vantaggio di quella del più forte: ecco la Roma del crimine e della sopraffazione, quella di “Roma violenta” (1975) di Marino Girolami. Il film si inserisce nel filone del poliziottesco all’italiana, raccontando una Capitale attraversata da un’inquietante ferocia sociale, dove non ci sono buoni né cattivi, ma soltanto belve e gli scenari ampi e biancheggianti dell’Eur offrono prospettive alla paura e all’inquietudine.
In attesa del Giubileo bergogliano del 2025, torniamo al Duemila a lungo mitizzato e poi trascorso come tutti gli anni. Oggi è appena arrivato nelle sale il seguito di quel “Gladiatore” di Ridley Scott uscito un quarto di secolo fa, entrambi ambientati ai tempi in cui Roma era la capitale del mondo conosciuto secondo una grandezza di cui rimane l’eco. Ma quella città non c’è più, le sopravvivono rovine e memorie tramandate: così la sua ricostruzione è stata perfezionata, per uno di quei paradossi frequenti nel cinema, in un variegato altrove dal Marocco all’Inghilterra fino alla Toscana, con un Colosseo in miniatura edificato a Malta.
Sempre in quel Duemila vive “Estate romana”, opera prima di Matteo Garrone: il viaggio di una giovane attrice e di uno scenografo attraverso una città deserta che riecheggia quella delle scene iniziali de “Il sorpasso”, fra torri piezometriche e vestigia razionaliste. Sul tetto della loro vettura, un mappamondo di cartapesta, realizzato per uno spettacolo ispirato a “Guerre Stellari” e mai inscenato, diventa il simbolo di un viaggio senza fine, per le strade di Roma, con il mare in lontananza, in una sorta di esodo verso l’ignoto, cercando un orizzonte mobile. Così, Roma diventa una città in bilico, sospesa tra un passato che non vuole passare e un futuro che tarda ad arrivare.