“Il potere va esercitato con l’autorevolezza delle idee e non con la forza della violenza e della repressione. Ciò sembra naturale, ma la realtà è più dura, più complicata”. Così Alexander Dubcek, il segretario del Partito Comunista slovacco ai tempi della Guerra Fredda. Dal 1968 guidò il dissenso contro l’URSS e informò tutta la sua azione politica per l’affermazione di un “socialismo dal volto umano” sfociato poi nella “Primavera di Praga”. Che fu stroncata, nell’agosto del’68, dai carri armati del Patto di Varsavia inviati da Mosca nella capitale cecoslovacca.
Il Cremlino lo spedì in Turchia con il ruolo di ambasciatore, poi venne espulso dal PCC. Per vent’anni Dubcek diventò un fantasma, per guadagnarsi di che vivere faceva il manovale. Tornò sulla scena politica nel novembre 1989, durante le grandi manifestazioni popolari che portarono al crollo del regime, così come a Berlino cadde il Muro ed ebbe fine, insieme con la Cortina di Ferro, il comunismo nell’Europa Centrale e Orientale. Nel dicembre Dubcek venne eletto all’unanimità presidente dell’Assemblea Federale cecoslovacca. Ma due anni prima, nel 1987, Renzo Foa – all’epoca firma di punta del quotidiano l’Unità di cui avrebbe assunto la guida tre anni dopo, primo direttore a non essere espresso dalla gerarchia del Pd - ottenne da lui una clamorosa intervista.
Si era nel pieno della Perestrojka, vale a dire quel convulso processo riformatore tramite il quale Michail Gorbaciov stava cercando di trasformare la morente Unione Sovietica. Il botta e risposta con colui che per due decenni era stato segretato nel più totale silenzio dal regime comunista suscitò immediatamente enorme attenzione in tutto il mondo, proprio perché il padre della Primavera di Praga poteva legittimamente essere considerato il primo – e più attendibile – uomo di Stato che aveva cercato di far evolvere il modello “comunista” in chiave democratica.
Ora quel faccia a faccia esclusivo viene riproposto dalla casa editrice Succedeoggi Libri – è diretta da Nicola Fano, Gloria Piccioni e Rossella Baldi, distinguendosi per l’attenzione alla saggistica d’autore – in un volume dal titolo “L’Europa che non è stata”. Ed è appunto la “riformabilità del comunismo” il tema di fondo della intervista, presentata con una nuova veste critica che lo aggancia al presente, segnato dal caparbio inseguimento da parte di Vladimir Putin di quel che fu il mito dell’Unione Sovietica. Partendo dai confini, che comprendevano l’Ucraina, dal febbraio 2022 invasa e brutalizzata. La storia ha dimostrato, come nel volume testimoniano sia l’introduzione di Stefano Folli che la postfazione di Andrea Graziosi, che il fallimento di quel processo di riformabilità del comunismo non è solo insito nell’idea socialista della società ma anche nella indisponibilità reale dell’Occidente, all’epoca, di sostenere il progetto di Gorbaciov. Dunque la riproposizione di quella storica intervista, oggi, è anche un monito a cogliere l’importanza della solidarietà ideale tra concezioni sociali anche molto diverse ai fini della crescita comune dell’Occidente.
Osservò Dubcek: “La legge dovrebbe dare garanzie sufficienti e certe contro il ritorno ai vecchi metodi del soggettivismo, del volontarismo, dell’arbitrio. La democrazia socialista dovrebbe aprire quotidianamente ampi spazi a tutti i livelli perché la gente possa riflettere ed esprimere le sue opinioni”. Dopo quarant’anni l’auspicio resta utopia a Mosca, e altrove. A febbraio scorso la morte di Alexej Navalny in un carcere russo della Siberia ne è stato un eclatante esempio.