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10 ottobre 2024
di Massimo Basile

Sulla strada dei fast food

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New York - Era una notte calda e umida quando Dean e io ci fermammo al nostro primo fast food, un piccolo diner illuminato da luci al neon che brillavano come stelle artificiali nel buio della notte americana. Il profumo di hamburger e patatine fritte ci accolse come un vecchio amico, e ci sedemmo al bancone, osservando il cuoco che lavorava con destrezza dietro la griglia. Dean, con il suo solito entusiasmo, ordinò un doppio cheeseburger, mentre io mi accontentai del classico burger e di una soda. Mentre mangiavamo, parlavamo dei nostri sogni e delle nostre paure, delle strade che avevamo percorso e di quelle che ancora ci aspettavano. Ogni morso era un assaggio dell’America, un pezzo di cultura popolare.

 

Attraversammo città e paesi, fermandoci in ogni fast food che incontravamo. C’era il McDonald’s di Chicago, dove i grattacieli si riflettevano nelle vetrine, e il Burger King di Denver, dove le montagne facevano da sfondo al nostro pasto. Ogni luogo aveva la sua storia, ogni pasto un sapore unico che ci ricordava che eravamo vivi, eravamo “on the road”.

 

Questa potrebbe essere “Sulla strada del fast food”, se a scriverla fosse stato Jack Kerouac, l’autore della beat. Ma la versione pop contemporanea ha un’anima italiana: quella di Carlo Mannelli, 57 anni, di Campiglia Marittima, cresciuto a Livorno, che ha realizzato la prima guida completa sui fast food negli Stati Uniti. Il titolo è “American Fast Food”, Mannelli lo ha scritto, progettato, disegnato e stampato da solo, ma per raccogliere tutti i dati di questa enciclopedia unica al mondo ha percorso migliaia di chilometri in Usa, provato centinaia di pasti, ascoltato il suono familiare del registratore di cassa soppiantato, adesso, dal silenzioso screen dei pad usati dai ragazzi dietro il bancone. Il profumo di cibo fritto, invece, è rimasto. Non sempre, non ovunque, ma c’è. Mannelli, se ve lo state chiedendo, non è obeso come milioni di americani, fiaccati dal diabete e dai trigliceridi, ma questo non è un viaggio nel mondo della salute. È un’escursione nella cultura pop di un Paese, senza considerare che ci sono posti dove è possibile mangiare “on the road” in modo veloce e sano. Gli sgarri culinari, però, sono consentiti.

 

Girare per fast food negli Stati Uniti è un viaggio tra mac and cheese, french fries, combo e “cappacuolo”, come chiamano il nostro capocollo nel loro inglese contaminato dagli immigrati italiani. È un mondo popolato di formaggi gialli a pasta dura, zuppe di vongole a base di patate, cipolle, sedano e latte del New England, carne tritata, frappé con latte in polvere al malto, granturco dolce, polpette di manzo e spaghetti, insalate mostarda-majonese-uova sode e aceto. Nel romanzo di Kerouac c’erano Denver, Salt Lake City, San Francisco, Marin City, qui Savannah, Point Pleasant Beach, Quincy, Hapeville, Indio, Kingsport, Benton, ma anche Miami, Las Vegas, New York, Oklahoma City e Tucson.

Dean Moriarty e l’io narrante, Sal Paradise, giravano su una Hudson color prugna del ’49 o una Cadillac Limousine nera del ’47, a voi toccherà probabilmente una delle impersonali e rassicuranti auto a noleggio che offrono negli aeroporti. Ma il panorama non cambia.

 

“Le catene di ristoranti – spiega Mannelli – soprattutto quelle nate prima degli anni ’70, hanno quasi tutte in comune una storia che incarna lo spirito dell’american dream, perché i loro fondatori sono arrivati al successo con il duro lavoro e la tenacia. Penso a McDonald’s, Taco Bell, Wienerschnitzel, Baker’s e Del Taco”.

 

Circa centocinquanta fast food, con storia, menù, aneddoti, foto, colori, e sapori se possibile. Come A&W fondato nel 1919 a Lodi, California, da Roy Allen, che mise in vendita a cinque centesimi a boccale un tipo di “root beer”, la cui formula era stata presa da un farmacista dell’Arizona, una bibita dolce e gassata dall’aroma di radice di una pianta del Nord America. E Steak ’n Shake, Missouri, con i suoi locali Art Deco, un vintage americano, il cui primo locale venne inaugurato nel ’62 al 1550 di S. Glenstone Avenue, dove un tempo passava la Route 66, la Strada Madre d’America. E Milo’s Hamburgers, catena regionale dell’Alabama, fondato nel ’46 e considerato il posto dove si mangia uno dei migliori hamburger dello Stato. O Runza, lungo le strade di Nebraska, Iowa e South Dakota, con il suo panino speziato al formaggio jalapeno, la cui ricetta è nata dai suggerimenti dei fans su Facebook. E Kelly’s, che offre roast beef e pesce, controfiletto stagionato, astice del Maine bollito. O lo stile western di Arby’s, ma anche il fast italiano di Joe’s Pizza, icona di New York, dove i turisti fanno la fila per gustarsi un triangolo pomodoro e mozzarella.

 

Il Dean di Kerouac, lo avete capito, avrebbe ordinato un doppio cheesburger, mentre Mannelli ha ordinato tutto, assaporato tutto, preso nota di tutto. Se il viaggiatore fosse in un romanzo di Paul Auster, invece, entrerebbe in un fast food e la scena si aprirebbe con un uomo solitario che si siede a un tavolo, circondato dal rumore incessante delle ordinazioni e dal profumo di patatine fritte. Ogni dettaglio del ristorante sarebbe il frammento di una storia più grande, un mosaico di vite che si intrecciano per caso. La donna che mangia da sola, scrollando il cellulare. Il commesso viaggiatore silenzioso all’angolo. L’uomo d’affari che mangia in fretta, immerso nei suoi pensieri. Il gruppo di adolescenti che ride rumorosamente. Il fast food è questo microcosmo pop della società americana, dove caos e caso regnano sovrani. Ogni interazione può essere un punto di svolta, così come ogni silenzio. Ma ciò che ha reso il fast food il cuore dell’America è questo essere di continuo sulla strada, diretti verso qualcosa o qualcuno, e sentirsi liberi di essere noi stessi. A rischio di diventare obesi, certo, ma liberi.

 

l’Antico Vinaio sfida i colossi Usa dei panini

 

 

“La favolosa”. “L’Inferno”. “The New Yorker”. C’è un fiorentino che ha deciso di sfidare a casa loro le catene americane dei sandwich. Le sue armi sono prosciutto toscano, crema di tartufo, stracchino, lardo, gorgonzola, zucchine speziate e rucola, che farciscono schiacciate dai nomi più svariati e pieni di promesse, come “La favolosa". Tommaso Mazzanti, 36 anni, ha realizzato il suo sogno americano portando negli Stati Uniti “L’Antico Vinaio”, il nome diventato un brand, dopo il lancio nel ’97 e nato dalla storica rosticceria fiorentina avviata dai genitori nell’89 in via dei Neri, vicino alla Galleria degli Uffizi, e poi diventata un piccolo tempio delle schiacciate ripiene. Mazzanti ha inaugurato otto locali in Usa, di cui cinque a New York e nelle zone più esclusive: uno sulla 25ª Street, poi al 225 di Liberty Street, sull’Ottava Avenue, sulla Settima e nell’Upper East di Manhattan, sulla 60ª. Gli altri tre locali sono a Venice e a Koreatown, in California, Las Vegas, in Nevada. E, probabilmente, altri ne nasceranno. Di questo presidio della qualità toscana si è occupato, con toni entusiastici, anche la rivista letteraria del New Yorker. I newyorkesi amano la fragranza delle schiacciate ripiene e l’affabilità del personale, che segue le linee del fondatore, che ha aperto negozi in tutta Italia, a cominciare da Milano, Napoli e Roma, oltre a Firenze. Una sosta all’Antico Vinaio è diventata una tappa d’obbligo, anche perché i venti dollari spesi qui hanno un peso diverso rispetto ai diciotto dollari di una delle tante catene che sfornano lunghi panini di mollica industriale e insaccati senza sapore. L’Antico Vinaio è seguito su TikTok da oltre mezzo milione di utenti. Mazzanti viene intervistato spesso da tv e giornali americani. Nel frattempo lui sta abituando i newyorkesi a pronunciare quella che è diventata la sua frase culto: “Bada come la fuma”, evocata ogni volta che prepara una delle sue schiacciate ripiene e fumanti. Mazzanti ha creato un impero con oltre duecento dipendenti e un fatturato che ha superato da tempo i venti milioni di dollari. E non vuole fermarsi, perché “ogni giorno – come dice lui stesso su Instagram ai suoi 80 mila followers – è un grande

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