A incrinare secoli e secoli di poesia e di arte nell’elogio della bellezza della primavera è stato quel guastafeste di Igor Fëdorovič Stravinskij. Non gli era bastato inventare un martellante accordo di tredicesima con continui cambi di accento: no, aveva proprio voluto strafare, stravolgendo ogni regola, e aveva composto attorno a quell’armonia rude e spigolosa un intero balletto. Ma che primavera, però: niente di mai visto e di mai udito prima. Quel 29 maggio 1913 al Théâtre des Champs-Élysées la macchina da guerra orchestrale del “Sacre du printemps” spazzava via dalla scena artistica i teneri virgulti, i fiori che si schiudevano, i profumi che si spandevano nell’aria, i cinguettii degli uccelli e i sospiri degli innamorati al risveglio dei sensi, facendo irrompere sulla scena i quadri della Russia pagana, l’energia selvaggia della rinascita della Natura, i riti propiziatori e le atmosfere orgiastiche del sacrificio di una vergine per rendere nuovamente feconda la Terra madre isterilita dall’inverno.
Pochi anni prima (1891) Paul Gauguin, in pieno periodo simbolista, aveva associato il risveglio della primavera alla perdita dell’innocenza, rappresentata da un fiore tenuto nella mano destra da una giovane donna nuda sdraiata mentre accarezza una volpe, a sua volta raffigurazione della lussuria.
Con l’esplosione della sensualità fisica e di una primordialità liberata dalle convenzioni e dagli schemi, “La primavera” di Antonio Vivaldi, all’improvviso, era diventata un retaggio dell’Arcadia, idealizzazione leggera e leggiadra della magnificenza seduttrice ma non erotica della stagione colorata che allontana dal nero-grigio-bianco dell’inverno col ritorno alla luce e al tepore. Tutto un mondo ha celebrato il ciclo della vita, facendone un sinonimo della stagione più bella: la primavera come giardino della maturità, gli anni verdi come i migliori dell’intera esistenza, il germogliare delle piante, degli animali e dell’essere umano. Il nuovo splendore, il ver latino, tanto per non andare troppo lontani nel tempo e nello spazio.
Sandro Botticelli sintetizzò mito, allegoria e interpretazione raffigurativa nella “Primavera” (1481-1482), un tripudio umanizzato del giardino fiorito, del vento, della fecondità e dei sensi, con le fanciulle danzanti e con l’amore che omnia vincit. Un sogno che incarna la realtà trasfigurandola in una tensione ideale verso la perfezione, di luci senza ombre e di corpi senza peso. Un archetipo universale e assoluto, che rappresenta ciò che non esiste ma che viene percepito con sensazioni tali da ispirare molti secoli dopo un altro compositore contemporaneo di Stravinskij, Ottorino Respighi col primo dei quadri sinfonici che compongono il “Trittico botticelliano” (1927).
Rinascita e Rinascimento, classicità e classicismo. Gli inarrivati virtuosismi degli strabilianti assemblaggi di Giuseppe Arcimboldo (1563) danno della primavera la sintesi in una donna di fiori (che diventeranno frutti in estate), petali, boccioli, bacche, corolle, foglie: Natura femmina e femminilità sprigionata dal rigoglio delle sue forme.
La primavera è donna, e non solo per dire, nella tela di Claude Monet (1871), che raffigura la moglie Camille Doncieux in un gioco di sole e di ombre che fa stagliare il vaporoso abito bianco nel verde del giardino di casa, mentre la giovane è intenta a leggere. Il bianco dei vestiti femminili e il verde della natura circostante costituiscono invece il leitmotiv dell’interpretazione di una “Giornata primaverile” nella tela del 1886-1887. Ma con “Campi in primavera” (1887) la figura femminile torna in secondo piano, in una luce sfumata e non più abbagliante, con un incedere solenne al riparo dell’ombrellino tra i campi ubriachi di colori e i pioppi svettanti. Ancor più giovane è la donna che Édouard Manet immortala nel 1882, bella e radiosa nel suo vestito a fiori alla moda e con il suo vezzoso ombrellino, un dipinto che il Paul Getty’s Museum si aggiudicò alla cifra record di 65 milioni di dollari.
Dall’impressionismo al suggestionismo di Vincent Van Gogh, rapito dal fenomeno della fioritura degli alberi da frutto in Provenza, tanto da dedicare 14 tele al segno più dirompente della primavera. La sua raffigurazione del “Ramo di mandorlo in fiore” (1890) non è una fotografia della realtà ma il tentativo riuscito di catturarne l’energia vivificatrice attraverso i colori e di esprimerli come se il bianco dei boccioli fosse destinato a liberarsi dal blu-azzurro della bidimensionalità del cielo.
Dai fiori ottocenteschi al floreale dell’Art Nouveau, nella Mitteleuropa di Alfons Mucha (1896), nella composizione per linee nette e luminose, quasi da vetrata di una cattedrale, della primavera incarnata da una donna in abito virginale ma sensuale nell’accarezzare le corde tese su un ramo arcuato col contrappunto di tre uccellini nel viluppo quasi dinamico delle chiome rosse che si librano al soffio del vento. Un decennio dopo con “Blumengarten” Gustav Klimt (1907) affida ai soli fiori l’espressione del vigore rigenerativo della primavera che si sprigiona nei diversi cromatismi dal verde dei prati, e con “Giardino italiano” (1913) ne fornisce un’ulteriore riprova.
Il futurismo, con lo sconvolgimento liberatorio dall’ordine e dall’accademia, si addentellava alla rivoluzionaria ispirazione stravinskijana dando una singolare rilettura della primavera come pura espressione di forme disancorate da ogni eco descrittiva. Giacomo Balla, nel piccolo olio su tela, nel 1916 disegnava le dinamiche curve del verde proteso nell’azzurro del cielo, dinamismo puro per meditare sulla stagione che disarticola la fissità invernale. E nonostante la poesia, la pittura e la musica, che ha eletto la primavera al vertice delle preferenze, forse non aveva tutti i torti Ennio Flaiano, quando scrisse: «Non c’è che una stagione: l’estate. Tanto bella che le altre le girano attorno. L’autunno la ricorda, l’inverno la invoca, la primavera la invidia e tenta puerilmente di guastarla». Con la forza irresistibile dell’arte, il più delle volte riuscendoci.
26 novembre 2024
8 luglio 2024